In un inizio piovoso di primavera e in un’America sovraccarica di problemi trova buona accoglienza un nuovo serio invito alla riflessione, sotto forma di una mostra d’arte che è qualcosa cosa di simile al Koyaanisqatsi di 35 anni fa. Quello fu un film totalmente composto di forme astratte, basato su una parola degli indiani Hopi del deserto americano che ha un significato complesso: attenzione, la vita sta entrando in un periodo di sbandamento. Anche questa volta si tratta di un richiamo a sentimenti profondi, e anche questa volta esso proviene dal deserto, precisamente da quello di Sonora in Arizona dove vive da decenni il vecchio pittore californiano Doug Wheeler.
Il suo monito è quello che ognuno potrebbe trovare nella propria coscienza dopo essere condotto in un ambiente naturale in cui non c’è nessun suono, nessuna eco, ci sono solo muti impulsi ottici e sensori provenienti dalle geometrie recondite della natura. L’istallazione è tradotta in una mostra dal titolo PSAD Synthetic Desert III, che ha luogo in un museo newyorchese, il Guggenheim, il cui solo nome è sinonimo di avanguardia, ed è il risultato di una eccezionale intesa con un altro istituto, questo italiano, che ha fatto molto per le esperienze spirituali di molti di noi, la fondazione varesina del conte Giuseppe Panza di Biumo. Dopo la morte, sette anni fa, di uno che fu tra i più eminenti collezionisti privati nella storia dell’arte moderna, la fondazione ha deciso di tradurre indirettamente in realtà alcuni progetti d’istallazione che non era stato mai possibile realizzare, cedendoli al Guggenheim che, con la sua storica sede di New York e altre di Venezia, Bilbao e Abu Dhabi ha la possibilità di attuarli e dar loro il massimo risalto internazionale. Il primo effetto dell’accordo è stato l’impianto, durato oltre sei mesi, di questa opera di Wheeler, artista singolare che da decenni esplora e ascolta il suo deserto anche da bordo di un aereo che pilota, e di cui diversi disegni e progetti d’impianto erano stati acquistati da Panza di Biumo direttamente negli Anni Sessanta.
Quello ora istallato è una camera definita “semi-anecoide” (le iniziali, parte del titolo d’archivio dei progetti, sono riportate nel titolo della mostra) perchè isolata in quanto possibile acusticamente attraverso non facili espedienti architettonici in un’ala del museo. Nella camera i visitatori sono ammessi in piccoli gruppi per pochi minuti di concentrazione su esperienze luminose e al cospetto di una istallazione di oltre duemila forme coniche ripetitive, che nel silenzio più profondo inducono a una percezione non consueta della realtà naturale.
Ho ricordato all’inizio il documentario Koyaanisqatsi che era accompagnato dalla musica primitivista ossessiva di Philip Glass; forse andrebbe ricordato, su una strada che ha avuto finora soltanto poche tappe, anche il “concerto del silenzio” immaginato tra le due guerre mondiali dal franco-americano Edgard Varèse ed eseguito per la prima volta due anni fa a Manhattan.
La gente che esce adesso pensierosa dalla camera “anecoide” di Wheeler, realizzata in collaborazione dalla conservatrice della collezione Panza di Biumo, Francesca Esmay e dal senior curator del museo Guggenheim Jaffrey Weiss, ha anche il piacere di visitare un’esposizione dei primi anni di raccolta condotti da un altro collezionista storico sui limiti del maniaco, Solomon Guggenheim (1861-1949). Si tratta in molti casi di opere che non vedevano la luce da anni, che in questi giorni occupano totalmente tutti gli altri spazi di questo “museo per l’arte non oggettiva”, edificio che in se stesso è una meraviglia dell’architettura moderna, il semi-cono rovesciato a sette piani completato nel 1959, cioè contemporaneaente alla morte del suo autore Frank Lloyd Wright, sul margine del Central Park di Manhattan.
Prima di uscire, molti fanno anche la fila davanti al gabinetto di decenza “unisex” del sesto piano, non tanto o non solo per ragioni corporee, quanto per prendere coscienza di un altro gesto simbolico di provenienza italiana, la tazza in oro massiccio fatta fondere e spedita da Maurizio Cattelan. Qui il titolo della mini-mostra permanente rappresentata dal gabinetto è un altro monito laconico: “America”. E c’è ancora chi ricorda, nelle quotidiane ricorrenze di una guerra americana che dura da quindici anni, l’altro avvertimento che fu nel 1939 nel titolo di un libro di Emilio Cecchi, America amara? Eppure fu l’America, allora, a salvare per tutti noi quanto c’è di buono, e non solamente nell’arte.