In uno dei passaggi più curiosi di questo Sono l’uomo delle stelle, raccolta delle più importanti interviste rilasciate da David Bowie nel corso della sua carriera alla stampa inglese e americana, l’artista lamenta di essere stato troppo condizionato dalle sue origini piccolo-borghesi. Fossero tutti come lui, i piccolo-borghesi!
Appena pubblicata da il Saggiatore, la versione italiana di Bowie on Bowie, volume curato da Sean Egan, e tradotto da Cristian Caira, rappresenta un buon viatico per questa rockstar definitiva, nelle sue molteplici incarnazioni: da Major Tom, l’astronauta che sceglie di andare alla deriva nello spazio del suo primo hit Space Oddity, a Ziggy Stardust, l’alieno che annuncia una fine del mondo molto glamour, dando a Bowie fama imperitura, dal Sottile Duca Bianco di Station to Station all’eroe della Berlino decadente, dal divo del cinema di pellicole come Furyo o Absolute Beginners al semplice “cantante della band” del periodo Thin Machine. E così via, fino al 2004, quando la sua carriera si arrestò bruscamente, a causa dei primi problemi di salute. Al libro manca solo l’ultima stagione, quella del ritorno alla musica con The Next Day, nel 2013, e poi del commiato definitivo di Blackstar, lo scorso gennaio.
E’ dunque una sorta di viaggio nel tempo quello proposto da questa corposa pubblicazione, e come tutti i viaggi nel tempo, è profondamente rivelatore. Colpisce innanzitutto quanto prolifica fosse la scena musicale nel periodo d’oro di Bowie, anche se all’epoca la musica viaggiava su un supporto rigido e costoso (in Italia, ahimè, molto costoso), il 33 giri, il mitico LP in vinile (o in alternativa sulla cassetta magnetica). Nell’arco di appena 11 anni, dal 1969 al 1980, Bowie ha inciso ben 13 album di studio (più due dal vivo, entrambi doppi). Capolavori del calibro di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spider from Mars, Diamon Dogs, Low, Heroes, Scary Monster, sono tutti usciti a breve distanza l’uno dall’altro, a volte meno di un anno. E spesso hanno segnato una svolta drastica, sia sul piano musicale che su quello estetico, due dimensioni sempre molto legate, nella sua carriera. Andiamo dal pop-rock (altrimenti detto glam rock) di Ziggy all’esplorazione della musica nera del periodo americano, fino alla stagione berlinese, all’elettronica avvolgente, agli scenari proto-new wave. Ma andiamo anche dai travestimenti sfacciati, dai primi vestiti femminili o “alieni”, accompagnati da un trucco pesantissimo, all’eleganza algida del bianco e nero, fino al triste Pierrot di Ashes to Ashes (un video, oltre che un brano, davvero epocale. Lo includiamo qui di seguito).
Ci sono alcuni temi che ritornano. Ad esempio il desiderio di Bowie di seguire solo la sua ispirazione. “Non me ne frega un cazzo” è un’espressione che ritorna spesso, quando il giornalista di turno gli fa notare che i suoi continui cambiamenti potrebbero spiazzare i fan. E in effetti, ad un certo punto l’artista ammette che non avere proseguito lungo il percorso tracciato da Ziggy Stardust gli è costato molto, in termini commerciali. Dopo quel periodo, infatti, le vendite torneranno a schizzare al top solo nei primi anni ’80, in particolare con la svolta commerciale di Let’s Dance.
Un’altra cosa che colpisce è che all’epoca di un disco come Heroes, uno dei più innovativi della storia del rock, con una facciata di splendide canzoni, un’altra di musica strumentale quasi ambient, e una chiusura affidata al funky straniante di The Secret Life of Arabia, non tutti fossero consapevoli di che razza di bomba avessero per le mani, forse nemmeno l’autore. Come noto, la title-track, è diventata poi un inno buono per tutte le stagioni, anche troppo (mentre brani come Blackout o Sense of Doubt rimangono nel cuore solo degli estimatori incalliti).
In queste interviste riemergono anche alcuni degli episodi più controversi della carriera bowiana. Ad esempio il consumo di droghe, nel tentativo di provare “tutto” (o meglio, tutto ciò che la cultura occidentale aveva da offrire, come l’artista specifica in un passaggio, e con l’eccezione delle cose veramente pericolose, ovvero, in particolare “fare l’esploratore”). Ritorna anche il suo presunto flirt con il nazismo, culminato nell’incidente del saluto a mano tesa alla stazione Victoria di Londra nel maggio 1976: Bowie si giustifica dicendo di non essere stato mai interessato al nazismo in quanto sistema politico, né tantomeno al National front, ovvero all’estrema destra inglese che muoveva i suoi primi passi in quegli anni, ma di essersi immerso in letture riguardanti i miti arturiani (re Artù, Sacro Graal e co.) e il cosiddetto “nazismo magico” (tema divenuto in seguito molto popolare nei circoli esoterici e che costituisce fra l’altro uno dei bersagli polemici de Il Pendolo di Foucault di Umberto Eco).
Bowie sottolinea inoltre più volte che il periodo trascorso a Los Angeles è stato il più duro della sua vita e, tra le righe, che l’abuso di cocaina ha avuto un ruolo non secondario in certe “deviazioni”. La sua salvezza sarà proprio abbandonare gli USA per fare ritorno in Europa, non nella natia Inghilterra, ma a Berlino, in compagnia di Iggy Pop. Riguardo al saluto nazista alla Victoria Station, però, è categorico: non era realmente tale, la colpa fu di alcune foto scattate – ed interpretate – maliziosamente.
Interviste rilasciate in periodi differenti consentono al Duca Bianco di dare diverse letture del suo lavoro. Ad esempio, lascia un po’ perplessi il fatto che in un primo tempo definisca ottimista una canzone come Station to Station, con i suoi oscuri rimandi alla Cabala ebraica e ad Aleister Crowley, e quel verso di disperato cinismo: “Non è un effetto collaterale della cocaina, penso che debba essere amore”. Tempo dopo, ripercorrendo appunto il periodo di Los Angeles – durante il quale interpretò anche la pellicola di Nicholas Roeg “L’uomo che cadde sulla terra” – il giudizio di Bowie cambierà drasticamente (pur rimanendo Station to Station, immortalato live nel film Christian F.: noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, uno dei suoi brani più complessi).
In generale, in queste interviste Bowie rivela una precoce consapevolezza del valore mediatico delle sue provocazioni. All’inizio della carriera, e a ridosso del suo matrimonio con Angie, c’è la sua famosa dichiarazione di essere gay – è considerato il primo outing della storia del rock – ma i media già allora si mostrano perplessi, propendendo semmai per una più ecumenica bisessualità. Qualche anno più tardi, l’artista ammetterà che l’affermazione non era completamente veritiera, rivendicando però di avere aperto la strada a tanti ragazzi e ragazze verso una più profonda conoscenza di sé e della propria sessualità.
Bowie si definisce una persona incline alla gentilezza. Ed in effetti praticamente nessuno si lamenta mai della sua aggressività. A volte mostra invece una certa insicurezza, che stupisce i suoi interlocutori.
A farla da padrone in queste conversazioni, come ovvio, è anche l’amore per la musica, pur sostenendo Bowie in un’occasione di non essere un musicista in senso stretto, ovvero di non padroneggiare davvero nessuno strumento fatta eccezione, in parte, per il sax, e di essere stato attratto anche da altre espressioni artistiche, in primis il teatro (da ragazzo andò a scuola, per un anno, dal grande mimo Lindasy Kemp), e poi la pittura. Fra i colleghi su cui esprime giudizi positivi: Brian Eno, Lou Reed, anche se in un’occasione sembra rimproverargli di essere rimasto un po’ troppo prigioniero di New York, John Lennon, e più tardi Nine Inch Nails, Suede, persino Morrissey (con cautela). Fra gli scrittori: Stephen King, Jean Genet (nei confronti del quale manifesta un certo senso di inferiorità), e soprattutto Kerouac, che lesse a 15 anni come tutti noi comuni mortali, e che con il suo elogio dei pazzi gli cambiò la vita.
Parte dell’interesse del libro è dato dalle lunghe digressioni dei giornalisti, a cui all’epoca era permesso dilungarsi per migliaia e migliaia di battute con le proprie personali opinioni. Oggi il giornalismo musicale ha un peso molto minore, ma negli anni ’70 i confronti/conflitti fra artisti e critica specializzata potevano assumere un carattere epico (“il giornalista musicale è la più bassa forma di vita esistente”, ebbe a dire una volta un astioso Lou Reed). C’è chi, oltre a realizzare l’intervista, cerca di interpretare la psicologia del personaggio, chi riferisce aneddoti gustosi, ed infine chi confessa di avere trascorso con Bowie semplicemente dei momenti intensi e belli, come Mike McGrath che ha la fortuna di trascorrere un’intera notte in uno studio di registrazione assieme a lui e a Bruce Springsteen.
La migliore intervista contenuta nel libro? Secondo chi scrive quella di Angus MacKinnon per New Musical Express, del 1980, che oltre a ripercorrere il periodo più fecondo della carriera del Duca Bianco mette a fuoco anche la sua esperienza teatrale nei panni di John Merrick, il deforme, sensibile protagonista di The Elephant Man di Bernard Pomerance, drammaturgo newyorchese.
Con i suoi occhi bicolori (uno irrimediabilmente danneggiato da un pugno ricevuto in gioventù), con la sua straordinaria ambizione, tipica, questa sì, di chi è nato e cresciuto nella “suburbia” (Brixton, quartiere di Londra a sud del Tamigi, poi Bromley, il sobborgo della capitale inglese che ha prodotto anche il Bromley Contingent, nucleo storico dei fan dei Sex Pistols), con le sue tante maschere ed incarnazioni, con la sua voce strepitosa nonostante il tabagismo, Bowie rimane un modello quasi irraggiungibile per chiunque voglia cimentarsi oggi con il rock.
Anche la sua uscita di scena, peraltro, con l’ultimo CD pubblicato solo pochi giorni prima della morte, e con quei video pieni di messaggi cifrati, che rimandano alle sue eterne passioni, lo spazio, gli alieni, la “nostalgia di futuro”, è stata perfettamente in linea con la sua vita e sembra avere in qualche modo fatto tendenza (sarà un caso ma anche Leonard Cohen ha fatto uscire un nuovo lavoro solo un mese prima di lasciare questa terra).
David Bowie, Sono l’uomo delle stelle, Il Saggiatore, 2016 (titolo originale, Bowie on Bowie, 2015), a cura di Sean Egan, trad. Cristian Caira.