“Ho perso la voce a New York City / Non l’ho più sentita dopo il ‘67 / Ora parlo come te / Ora canto come te / Caffè e sigaretta per sentirmi male / Qualche famiglia per farmi pensare” [Lost my voice in New York City / Never heard it again after sixty-seven / Now I talk like you / Now I sing like you / Cigarette and coffee to make me sick / Couple of families to make me think], scrive Leonard Cohen in uno dei suoi scritti del 1973.
Uno dei poeti più autentici, influenti e introversi del Ventesimo secolo ci ha lasciato all’età di 82 anni dopo aver regalato al mondo l’ennesimo gioiello, You Want It Darker, uscito il 21 ottobre su Columbia Records. Nato, com’è noto, da una famiglia ebrea del Quebec dalle parti di Montreal, ha girato il mondo da Los Angeles ai posti più esotici, ma proprio a New York ha legato uno dei periodi più importanti e decisivi della sua ascesa artistica. Da quando vi si trasferisce per la prima volta nel 1957 per frequentare la School of General Studies alla Columbia University per poi tornarvi qualche anno dopo in cerca di fortune musicali. New York segna il suo immaginario e fa da sfondo ad alcuni dei brani più intensi della sua lunga carriera. Proviamo a ripercorrere il rapporto tra Leonard Cohen e la Grande Mela in cinque canzoni.
Stories of the Street (1967)
[Ascolta]
“Mi sporgo dal davanzale in questo vecchio hotel che ho scelto / Una mano sul mio suicidio, una mano sulla rosa” [And I lean from my window sill in this old hotel I chose /
Yes one hand on my suicide, one hand on the rose].
Una volta arrivato a New York, Leonard Cohen entra per forza di cose nel circuito legato alla Factory di Andy Warhol. La musa del lato oscuro di New York, Nico, diventa un suo punto di riferimento e una grande ispirazione musicale. Quando non si rifugia nell’isolamento del suo cottage dell’isola greca di Idra o nella sua casa natale di Montreal, la suite 424 del celebre Chelsea Hotel, crocevia di aspiranti folksinger e leggendarie rockstar, diventa la sua casa.
In questo brano si affaccia dalla sua camera volgendo lo sguardo alle strade di Manhattan e riflette sulla misera condizione dell’uomo in un mondo al collasso, con il suo tradizionale e spietato pessimismo.
Famous Blue Raincoat (1971)
“Sono le quattro del mattino, alla fine di dicembre / Ti scrivo ora per vedere se stai meglio / New York è fredda, ma mi piace dove vivo. C’è musica su Clinton Street tutta la notte” [It’s four in the morning, the end of December / I’m writing you now just to see if you’re better / New York is cold, but I like where I’m living / There’s music on Clinton Street all through the evening].
Da un altro capolavoro come Songs Of Love and Hate, un altro brano che resterà scolpito per sempre nell’immaginario del songwriting moderno. La desolazione di una New York fredda e oscura e l’inimitabile voce rassegnata di Cohen ci guidano da quella Clinton Street del Lower East Side che l’ha ospitato per diversi mesi, attraversa una storia malinconica come tante, quella di un triangolo amoroso tra l’autore, il destinatario di questa lettera struggente e Jane.
Chelsea Hotel n.2 (1974)
“Eri famosa, il tuo cuore era una leggenda / Mi hai ripetuto che preferivi uomini belli/ Ma per me avevi fatto un’eccezione” [You were famous, your heart was a legend / You told me again you preferred handsome men / But for me you would make an exception].
Un altro dei brani più famosi, da New Skin For The Old Ceremony, è ispirato alle avventure e agli incontri al 222 di West 23rd Street. Nella fattispecie il brano è dedicato a un’altra star prematuramente scomparsa quattro anni prima, Janis Joplin. Dal loro primo incontro nell’ascensore dell’hotel a una relazione tra letti sfatti e limousine. Cohen scrive il brano tra la Polinesia e l’Etiopia, per decenni non rivelerà mai il nome della protagonista del testo a cui dedica Chelsea Hotel n.2. Solo negli anni ‘90 si aprirà alle prime rivelazioni sull’affair.
Hallelujah (1984)
“C’è un’esplosione di luce / in ogni parola. E non importa se tu abbia sentito / la sacra o la disperata Alleluja” [There’s a blaze of light / In every word / It doesn’t matter which you heard / The holy or the broken Hallelujah].
Anche questo classico senza tempo, uscito sul suo settimo LP Various Position e rivisitato da oltre 300 artisti e band, è legato alla Grande Mela. Lo scenario è quello di un altro albergo, il Royalton Hotel su 44th Street, a due isolati da Bryant Park, nel cuore di Midtown Manhattan. Cohen scrive i primi versi di questo leggendario gospel contemporaneo colmo di riferimenti biblici, seduto in mutande sul pavimento, mentre sbatte continuamente la testa per terra.
On That Day (2004)
“Alcuni dicono / Che è quel che ci meritiamo / Per i peccati contro dio / Per i crimini nel mondo / Non saprei dire / Sto solo difendendo la fortezza / Da quel giorno / In cui hanno ferito New York” [Some people say / It’s what we deserve / For sins against god / For crimes in the world / I wouldn’t know / I’m just holding the fort / Since that day / They wounded New York].
La narrativa fuori dal tempo, o senza tempo, di Leonard Cohen, non ha mai disdegnato incursioni molto discrete e raffinate nelle problematiche della contemporaneità. Il brano, estratto da Dear Heather, è un gospel intimo dalle luci soffuse, dedicato alla New York post-11 settembre. Due minuti di denuncia pacata alle follie del mondo e dell’umanità.
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