Il romanzo di Isidoro Meli, giovane palermitano, colpisce il lettore già dalla copertina. La combinazione di un telecomando della playstation e il tema della mafia fa sperare che scriva ai giovani in un modo che parte dalle loro sensibilità.
Seguendo quella tradizione sana che va da Sciascia a PIF, Meli reagisce contro la confusione creata dalla rappresentazione commerciale e la bigotteria culturale nella quale il tema mafia è stato spesso avvolto. Al dubbio tremendo che non si muova mai niente e non si cambi mai nessuno, Meli risponde con cosa ne possa pensare oggi un giovane che è stato cresciuto con quell’inutile e dannosa agiografia.
Vittorio Mazzola, voce narrante di questo romanzo, racconta la storia di Tommaso Traina, il figlio muto di un mafioso ucciso dai compari, i quali per compensare la famiglia della perdita, lo assumono come portapizzini.
L’ennesimo libro arriva con un tema sovraesposto? No, La mafia mi rende nervoso (edizioni Frassinelli, 2016) non è sulla mafia. Questo libro è contro la rappresentazione della mafia fornita dai mass media da mezzo secolo. L’autore è cresciuto in quell’atmosfera. Lui preferisce uno stile un po’ fumetto e brioso che fa ridere. Finisce con un pensiero toccante per la sua auto-consapevolezza. Questo è il regalo ideale per quei giovani lettori rimasti.
C‘è stata una causa particolare che l’ha spinta inizialmente a ideare questa storia?
“Avevo letto un libro sulla mafia, non ricordo più il titolo, e credo abbia poca importanza: era l’ennesimo libro sulla mafia pieno di stereotipi e retorica. Ricordo che insisteva molto sul profondo valore arcaico dell’uso dei pizzini e al contempo sulla sua efficacia. Io ho sempre trovato l’uso dei pizzini antiquato, inutile e ridicolo. Così ho pensato di scrivere una storia, che all’inizio doveva essere una rappresentazione teatrale sullo stile della classica commedia degli equivoci alla Plauto, su un tizio che scambiava i pizzini: li faceva arrivare ai destinatari sbagliati o ne cambiava direttamente il testo, generando appunto una serie di equivoci e situazioni esilaranti. Poi, non avendo esperienza di scrittura teatrale, ho preferito scrivere un romanzo”.
Il libro colpisce a vista. Infatti, i tema del romanzo sono tutt’altro che della solita stoffa sul discorso. E’ giusto dire che le dispiace l’odierno trattamento pubblico del discorso almeno quanto il fenomeno stesso?
“No, è eccessivo. La narrazione sulla mafia mi dà molto fastidio, ma non quanto la mafia stessa. Mi dà fastidio l’eccesso di retorica, il continuo appoggiarsi a dicotomie – gli eroi dell’antimafia, trattati alla stregua di santi, e la mafia descritta come la piena incarnazione del male. E’ una rappresentazione ipocrita della realtà, che allontana dalle responsabilità collettive sulla mafia stessa. Pif spiega molto bene il concetto nella puntata de ‘Il Testimone’ dedicata a Roberto Saviano: rappresentare gli uomini e le donne che lottano contro la mafia come eroi senza macchia o santi, è un modo per deresponsabilizzarci tutti: per affrontare la mafia devi essere una persona speciale. Invece no, sono persone come noi, con pregi e difetti, vizi e virtù. Sono persone normali che si assumono le loro responsabilità. La rappresentazione di questi soggetti come eroi, come speciali, ha anche un’altra funzione: nel momento in cui viene fuori un loro tratto umano – un difetto, un vizio, una colpa, un errore, in parole povere una ‘macchia’, è possibile distruggerli interamente, cancellando anche quanto di buono hanno fatto, nei loro limiti. La vicenda recente di Pino Maniaci è un esempio perfetto. Ma anche il clima che si è creato intorno a Saviano: come se determinati atteggiamenti che assume (il ruolo di pulpito, alcune forme di egocentrismo) possano cancellare l’importanza e il valore del suo primo romanzo”.
In un esempio di rappresentazione v. la realtà, Leonardo Sciascia; il suo pensiero, il suo messaggio, la sua reputazione, sono stati spesso strumentalizzati e stravolti dall’episodio dei professionisti dell’antimafia. Cosa ne pensa di quella storia che investì in modo particolare il giudice Borsellino?
“E’ un discorso molto complesso. Sciascia in quell’articolo criticava le modalità con cui Borsellino era stato nominato procuratore della repubblica di Marsala al posto di un altro giudice – il dott. Alcamo – che lo precedeva in graduatoria. La nomina faceva riferimento a competenze ‘particolarissime’ che inducevano in via eccezionale a preferire Borsellino. Sciascia vedeva in questa eccezione il rischio di una concessione enorme e non controllata di potere e, soprattutto, la creazione di un pericoloso precedente. E nell’articolo faceva riferimento a come, negli anni ’20, la categoria antimafia fosse stata utilizzata da una parte del partito fascista – la più conservatrice – per rimuovere la fazione avversa, di origine socialista. Che dire? La vicenda di Borsellino dimostra che le competenze particolarissime evidentemente sussistevano, e che la sua nomina era funzionale alla lotta contro la mafia, e da questo punto di vista l’articolo di Sciascia sarebbe da considerare come un rigurgito reazionario. Diverse vicende successive, di abusi di potere da parte dell’antimafia, dimostrano come i timori di Sciascia fossero fondati. Non credo sia necessario schierarsi da una parte o da un’altra anzi, credo sia proprio deleterio perché superficiale. Credo sia fondamentale conoscere, approfondire, capire le ragioni che giustificano le singole posizioni e scelte.
Nella sfera umana della Sua vita privata, ha avuto delle esperienze notevoli con la dinamica della rappresentazione contro la realtà del fenomeno mafioso.
“Sì. Ho avuto cognizione di situazioni in cui ciò che era rappresentato non corrispondeva al vero. L’esempio più semplice che mi viene in mente è il modo in cui è cambiata radicalmente la rappresentazione del rapporto tra la città di Palermo e Falcone e Borsellino dopo le stragi, come provo a spiegare alla fine del libro. E’ facile accusare la mafia di avere diffuso ad arte maldicenze e calunnie su di loro. Ma è una mezza verità. La mafia avrà anche gettato i semi, ma ha trovato terreno fertile. Palermo non ama chi prova a cambiare le cose. E’ un difetto grave della mia città. Tutti i luoghi e le comunità hanno difetti, e non c’è niente di male. Basterebbe ammetterlo, riconoscere i propri errori e provare a migliorarsi, poco a poco. La beatificazione di Falcone e Borsellino che viviamo da 25 anni non serve a questo, serve più che altro ad ignorare il problema. I miti servono sempre a falsificare la realtà. C’è ovviamente del buono, venuto fuori dopo le stragi, una presa di coscienza del problema da parte di frange della popolazione, e anche una sua esternazione (che prima era del tutto assente). Ma è ancora poco. Meno di quanto non sembri”.
Altro esempio di rappresentazione v. la realtà, secondo Lei, Provenzano è morto con segreti gravissimi che non ha rivelato, oppure lui forse non era quel capo di tutti i capi sbandierato dai più, dato che quei segreti non sono riusciti a salvarlo dalla morte in galera, che di solito non avviene mai per i veri boss (vedi Lucky Luciano, Carlos Marcello, ecc.).
“Questa domanda presuppone un approccio diffuso e secondo me errato, che ho notato anche in questi giorni, soprattutto su Facebook, in relazione alla morte di Provenzano: presuppone che la mafia sia la roba un po’ da fumetto che ci hanno raccontato, una ditta individuale in cui il capo comanda e ha dei sottoposti che eseguono, come una specie di banda bassotti in grande. Ma io non credo funzioni così. Io credo che la mafia sia un organismo basato sulle relazioni. I presunti vertici di turno sono quelli in un determinato momento più abili a gestire quelle relazioni. Ma l’organismo, la mafia, non dipende da quel vertice, e le decisioni non le prende il vertice. La cosa che ho notato di più in questi giorni, su Facebook, sono i post in cui si legge una reazione emotiva forte contro Provenzano. Lui, mandante di stragi di stato, di omicidi efferati e bimbi squagliati nell’acido. Finalmente è morto, finalmente arriva l’inferno per lui. Lo capisco. E’ normale. Quelle decisioni, lui, ce le ha nel sangue. Ma prendersela con Provenzano è come prendersela con l’AD di Shell per i massacri perpetuati in Nigeria. Li ha fatti Shell, non il suo AD. Il sistema non è fatto in modo tale da mettere ai vertici persone con idee difformi da quelle che alimentano il sistema. Non ci fosse stato Provenzano, ma un altro, sarebbe andata allo stesso modo. Si porta dei segreti nella tomba? Certo. Tutti noi ce ne portiamo. Non era in realtà il capo? Boh, c’è un capo? C’era forse, in parte, nella mafia americana. Ma l’America è un paese in cui la democrazia funziona, si gioca abbastanza allo scoperto. E allora escono i Lucky Luciano e i Gambino. Ci si sfida apertamente, chi vince comanda. E’ una democrazia basata sulle regole. L’Italia è una democrazia basata sulle eccezioni, in cui non vince chi ha più voti/potere, vince chi li usa meglio. Voglio dire, vale anche nel calcio. L’Italia non è mai più forte. E’ più sveglia. I capi in Italia non sono i più bravi a comandare, ma i più bravi a mediare”.
Le scelte tecniche della struttura del racconto ci sembrano del tutto originali in confronto alla marea di materia in tema. Queste scelte le sono venute spontanee o sono state piuttosto travagliate?
“Abbastanza spontanee. La prima stesura conteneva già gran parte di quello che è stato pubblicato. Gli interventi successivi sono serviti a bilanciare maggiormente gli ingredienti – il peso della voce narrante, o della figura del poliziotto. L’unica scelta che ha richiesto riflessione e un certo travaglio personale è proprio l’intervento, estremamente autobiografico, sulla morte dei due giudici, perché è – con tutti i limiti dettati dalle circostanze – un ammissione di colpa. E una richiesta di scuse. Cose che senza un travaglio interiore a monte, non valgono niente”.