L’Istituto Italiano di Cultura in collaborazione con il PEN World Voices Festival ha ricordato con nostalgia e sorrisi Umberto Eco il 29 aprile, a due mesi dalla sua scomparsa. L’incontro ha riunito lo scrittore e saggista indo-britannico Salman Rushdie, la scrittrice e saggista americana Siri Hustvedt, e il giornalista e allievo di Eco, Gianni Riotta. A conclusione dell’incontro, l’attore Edoardo Ballerini e il direttore dell’Istituto di cultura, Giorgio van Straten, hanno letto, l’uno in inglese, l’altro in italiano, alcuni brani de Il nome della rosa.
L’ospite d’onore della serata, Salman Rushdie, di cui The New York Times ha scritto che “gli sarà garantita l’immortalità letteraria”, avrà fama perpetua anche per quella recensione del secondo romanzo di Eco. Nel suo intervento d’apertura ha spiegato che, quando scrisse la famosa recensione del Pendolo di Foucault per il London Observer. non aveva mai incontrato Eco. “Lettore, il Pendolo di Foucault mi ha nauseato – scrisse Rushdie – L’obeso nuovo volume di Umberto Eco non ha humor né caratterizzazione né possiede nulla che rassomiglia credibilmente a una parola parlata, è astrusamente pieno di linguaggio involuto di ogni tipo”. Sebbene gli dispiaccia per quella recensione così cattiva, direbbe al suo caro amico e moschettiere (il terzo moschettiere è Mario Vargas Llosa: nemici che si insultavano a distanza senza conoscersi e che poi son diventati buoni amici), ancora oggi conferma “quel libro proprio non mi è piaciuto e su questo non cambio idea”.
Rushdie ha parlato poi delle altre opere dell’amico, in modo particolare Il nome della rosa, romanzo che vanta più di 50 milioni di copie vendute e da cui è stato tratto il film con Sean Connery, elogiando la visione di Eco, ispirata da figure più che parole. Per esempio, l’incendio di Costantinopoli ispirò Baudolino; invece ne L’isola del giorno prima troviamo la linea internazionale del cambiamento di data (e l’immagine di quella nuotata nel passato per conoscere la ragazza che si ama).
La biblioteca del monastero, metafora dominante de Il nome della rosa fu ispirata da due grandi biblioteche: la Sterling della Yale University e la Robarts della University of Toronto (tra l’altro, l’università di chi scrive), in cui troviamo Jorge da Burgos, il bibliotecario cieco inspirato dall’argentino Borges, ed anche un riferimento a un libro scritto da un certo Umberto di Bologna (lo stesso autore Eco che viaggia a ritroso nel medioevo). Rushdie ha trovato straordinario il romanzo visivo di Eco, questa fonte di creatività che si nota anche in tanti altri suoi libri: “C’è una sorta di sguardo che mostra le cose di cui parla. Eco, uno scrittore che conosceva e usava la lingua in maniera così profonda, è partito dalle figure e non dalle parole”.
A differenza di Rushdie che ha parlato del suo geniale amico con cui non mancava il disaccordo, la scrittrice Siri Hustvedt ha iniziato il suo discorso dichiarando di non aver mai conosciuto Umberto Eco di persona, ma solo attraverso le sue opere. L’incontro con Eco c’è stato durante i suoi studi post-laurea in letteratura inglese alla Columbia University, in una libreria dell’Upper-Upper West Side dove comprò il Trattato di semiotica generale. Così iniziò la sua formazione in semiotica (lo studio dei segni) e seguì il resto della trattatistica di Eco su lingua, filosofia, arte, e su come scrivere la tesi di laurea. Quando uscì Il nome della rosa, davanti al libro, Hustvedt cadde nell’errore di isolare conoscenze e competenze in compartimenti stagni: “Guarda caso ci sono due italiani con lo stesso nome – ha detto Hustvedt – Umberto Eco il semiotico e questo tizio, il romanziere. Non mi era venuto in mente che fossero la stessa persona”. Il nome della rosa è l’esempio perfetto di romanzo semiotico, per Hustvedt un nuovo campo di ricerca da esplorare.
“Prima di Google, c’era Umberto Eco – ha proclamato il giornalista Gianni Riotta – era impossibile parlargli senza allargare i propri orizzonti”, ha continuato condividendo storie colorite e aneddotiche di Umberto studioso, scrittore, uomo, che aveva conosciuto a 17 anni mentre lavorava a Il Manifesto dove Eco scriveva con lo pseudonimo Dedalus.
Riotta, allievo di Eco, ha raccontato che il suo maestro non dava mai in prestito nessun dei suoi oltre 50mila libri, ma si potevano sempre leggere da lui, dove si riunivano tanti amici per nutrire allo stesso tempo la mente e la pancia e si prendevano del tempo per divorare libri. Riotta si sentiva onorato di trovarsi in quella compagnia, una comunità di intellettuali con cui si discuteva di tutto dalle arti alle scienze. “Umberto era erudito alla perfezione e cercava sempre di farci imparare cose diverse e nuove”. Eco non temeva di essere controverso, anzi aveva ammesso di aver perso la libertà di non avere un’opinione, persino attaccando Pier Paolo Pasolini su questioni di omosessualità e aborto.
Riotta ha anche ricordato Eco il comico, faticando a trovare una sua barzelletta che non rischiasse di offendere il pubblico e finendo poi per raccontarne una su un gesuita e un domenicano. I bersagli delle sue battute erano perlopiù siciliani (per colpire proprio Riotta), omosessuali, minoranze…
“Umberto era un uomo connesso, uno della rete. Umberto visualizzava la vita come collegamenti tra punti – ha detto Riotta – Qualsiasi cosa diventa importante quando si connetta ad un’altra. Il nostro compito è proprio quello di connettere tutte le diverse lingue e culture e di continuare a sorridere e lavorare”.
Sorrisi e nostalgia. Anche chi scrive ha avuto il suo incontro con Eco. Ricordo ancora a memoria brani del Trattato di semiotica generale; ricordo bene i miei limiti d’interpretazione leggendo Il nome della rosa e altri suoi romanzi e saggi (ammetto di non aver mai finito La misteriosa fiamma); e apprezzo ancora oggi quella preziosa rubrica essoterica, La Bustina di Minerva, letto mentre scrivevo la tesi. Ahi, la tesi…quante ore passate tra gli oltre 12 milioni di libri cartacei della biblioteca Robarts, tanto amata da Eco. All’università di Toronto ho avuto occasione di seguire interventi e seminari, e poi c’è stata quella serata nel 1996 al Roof Lounge dell’Hyatt a Yorkville: dopo il convegno Popular Culture: Foundations and Futures, un cocktail con professori e studenti post-laurea. E lui e il suo gin Martini extra dry, ovviamente.