“E non me li far mancare troppo. Ma neppure troppo poco. Tienimi alla giusta distanza da quelli che amo, Dio, cazzo”.
Troppa importanza all'amore è la nuova raccolta di racconti di Valeria Parrella, appena edita da Einaudi. Leggo questi 8 nuovi racconti mentre ascolto Only Love Can Hurt Like This di Paloma Faith, che fa una comparsata nell'ultimo Sorrentino, e mi dico che tutto si tiene, anche la neve che ha ripreso a cadere qui sulle Alpi, a maggio.
La Napoli che scrive non è solo Elena Ferrante, chiunque essa sia. E non è solo Erri De Luca, attualmente alle prese con un processo per istigazione al sabotaggio contro la TAV. Valeria Parrella, ad esempio (Torre del Greco, 1973), ha già all'attivo un buon numero di romanzi e racconti, ha vinto premi, è una scrittrice affermata, che può permettersi di cambiare editore, di passare dalla forma lunga a quella breve e viceversa, insomma, di seguire il suo estro. La sua è una scrittura semplice e densa ad un tempo, carnale, diretta, fatta di odori ("i vicoli profumati di candeggina"), di metafore e similitudini ("gli anni della sua doppia vita ora coincidevano e si chiudevano come le due parti della Bibbia"), di dialoghi o monologhi a volte efficacissimi (tutti quelli del primo racconto, Il giorno dopo la festa), a volte un po' troppo elaborati per essere credibili, come quello della figlia sedicenne che, nel corso di una vacanza in Austria, si scaglia ferocemente contro la madre adultera e il padre che ha sopportato per anni facendo finta di niente, nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Troppa importanza all'amore. Un titolo molto bello e carveriano, per un volume in verità un po' smilzo, poco più di 100 pagine, ma tant'è, l'editoria deve avere le sue leggi imperscrutabili.
Nel risvolto di copertina, Valeria Parrella confessa: "Quando scrivo racconti sono sempre felice. Mi sento in un territorio mio". Nelle interviste che hanno accompagnato l'uscita del libro ha chiarito il suo pensiero: il racconto è perfetto per i nostri tempi, ti scarica addosso un'emozione rapida, rubata, e poi puoi dedicarti a qualcos'altro per il resto della giornata (di nuovo, considerazioni molto vicine al Carver che diceva di avere privilegiato la forma-racconto per questioni – anche – di tempo, cioè il tempo limitato che un autore non ricco e con una famiglia a cui badare può dedicare alla scrittura). Ma non è solo questo: è anche che il racconto ti consente di catturare un'urgenza che passa al volo e di darle subito forma, senza dover aspettare di costruirci attorno un romanzo.
Ed ancora: il racconto è adatto a raccontare amori sghembi, frammentari, che rimangono lì, appesi a un filo, e che a volte volano via per un niente, o si spezzano con un rumore secco. Il romanzo, almeno a prima vista, sembrerebbe più adatto a raccontare un amore che ha o si dà un senso compiuto, una circolarità, un destino (da Anna Karenina a Il danno passando per Il grande Gatsby, solo per mettere in fila qualche titolo molto amato). Va detto anche che scrivere racconti in Italia rimane una scelta coraggiosa: gli editori in genere li scansano, dicono che non vendono tanto quanto un romanzo o meglio ancora un romanzone. Nonostante poi autori come appunto un De Luca, di grande successo commerciale, abbiano legato gran parte delle loro fortune al taglio corto.
Per tornare a Parrella, qui abbiamo otto storie non solo d’amore ("e altre storie umane", recita infatti il sottotitolo) che dei rapporti umani scandagliano diversi aspetti e declinazioni: c'è l'attrazione fisica, che scocca improvvisa da una donna non più giovane con una madre invalida verso un cameriere che conosce da anni, e la fa bella, c'è l'amore sublimato della monaca di clausura, c'è il rapporto complicato fra genitori e figli, c'è anche il microcosmo immobile del carcere, e c’è la morte. C'è anche, naturalmente, il tema-principe, quello del tradimento, con i suoi equilibrismi, così irrimediabilmente smascherati.
A tratti, nel suo mettere l'amore a nudo e con le spalle al muro, Parrella mi ha ricordato un altro libro di racconti sul tema, che ho letto recentemente (e di cui ho scritto in questa rubrica): Felici i felici, di Yasmina Reza. Là c'era un filo conduttore fra le diverse storie raccontate, anche se sottile; qui no, ogni racconto fa storia a sé, nasce evidentemente da un'ispirazione diversa. Ci sono passaggi anche in questo libro che lasciano lividi, e allora la domanda sorge spontanea: perché delle storie d'amore ci interessa soprattutto quello che scortica e fa soffrire? Perché il lettore è masochista? O perché vuol provare il brivido di una tempesta pur rimanendo al sicuro e a caldo, sulla terraferma? Scatta per queste storie quello che scatta per i thriller? Non credo: piuttosto, il lettore cerca se stesso, cerca ciò che sa anche se non sa dirlo così bene. Ed evidentemente, di storie andate o finite male sono pieni i cuori.
Ma in questo libro c’è anche vitalità, pienezza, soddisfazione. C’è la luce del Golfo di Napoli, un po’ me ne è arrivata persino qui, nella mia valle alpina, incassata fra le montagne. “Si può resuscitare per una scopata? No, in primo luogo perché non credo nella resurrezione (…). Però la verità è che poi, la sera, stesa nel letto a dare fondo a tutto quello che di fumabile aveva lasciato mia figlia in carta d’alluminio, io mi sentivo proprio un’altra persona. Una persona che si sente bene”.
Insomma, l’amore può anche essere una festa, a volte. Quello che più importa “è come ti senti il giorno dopo”.
Valeria Parrella ha esordito con una raccolta di racconti nel 2003, Mosca più balena, vincendo il Campiello opera prima. Un esordio che ha trovato conferme man mano che uscivano gli altri libri, nonché i lavori teatrali e per il cinema, persino un libretto per un'opera lirica. Impegnata politicamente a sinistra, si è candidata nel 2014 alle europee con l'Altra Europa con Tsipras.
Valeria Parrella, Troppa importanza all'amore, Einaudi, 2015