“Sai che l’amore per certi versi fa schifo”. Trovi una frase così, alla nona riga della prima pagina di un libro, e ti dici: “Beh, non è Virginia Woolf”.
Poi, poco più avanti: “L’amore non mi manca perché le persone più interessanti sono quelle curiose. E se si ha la fortuna di trovare una persona curiosa, non si può immaginare che esaurisca la sua curiosità con te”. E pensi: “Beh, dai. Magari Kundera non l’avrebbe detto troppo diversamente”.
Quando ho preso in mano Che ci importa del mondo, di Selvaggia Lucarelli, un volume di 553 pagine edito da Rizzoli, ho pensato che stavo correndo un rischio. Una parte di me voleva scriverne, e l’altra parte le chiedeva: perché? Nulla mi attirava, in verità. Non la trama, non l’autrice. Però non volevo uscirne con una banale stroncatura, men che meno una stroncatura preventiva, cosa che sarebbe assai facile in una rubrica che di solito recensisce titoli di Delmore Schwartz, Jonathan Franzen e compagnia.
So di essere, come lettore idealtipico, agli antipodi rispetto al mondo di Selvaggia. Io sono il classico lettore… no, non radical-chic, e nemmeno realmente colto (il lettore colto legge i libri stranieri in lingua originale, figurarsi), però, diciamo, il lettore “forte”, il lettore che fra l’ultimo Sophie Kinsella e qualche pagina de La morte a Venezia sceglierà sempre di rileggersi il vecchio Mann, e che fra l’ultimo Fabio Volo e ascoltare il nuovo CD degli Arcade Fire sceglierà ovviamente gli Arcade, perché la vita è troppo breve per prendere sul serio tutto.
Inoltre il primo romanzo di Selvaggia Lucarelli, blogger famosissima, conduttrice televisiva e radiofonica, editorialista di Libero (un altro motivo per me, quest’ultimo, per starle alla larga), ha esordito con una polemica davvero di modesto profilo, riguardante le sue tette. Sì, le tette di Selvaggia, che è una bella donna, come testimonia la foto sulla quarta del libro, che ne immortala lo sguardo ammiccante e però, anche questo va detto, non le tette (nascoste dentro a un giubbetto di pelle nera che fa un po’ tardo-CBGB versione via Montenapoleone).
Non rivelerò i dettagli di questa polemica, li potete trovare in internet, ovviamente. Se n’è occupato persino Gad Lerner. Qui parliamo di libri, non di tette e neanche tanto di copertine, per quanto le une e le altre aiutino, eccome, a vendere i libri (assieme alle polemiche, of course)
Perciò, il libro. Il titolo è un prestito da una canzone di Ivano Fossati, che pur avendo scritto tanti brani perfettamente commerciali è pur sempre un cantautore di quelli belli pesanti, di quelli “di sostanza”. Bene, vediamo il contenuto, mi sono detto. Vediamolo senza pregiudizi (non è mai possibile, lo sappiamo tutti).
Che dire? Selvaggia sa il fatto suo, e conosce, dopo tanti anni di brillante bloggeraggio, il suo pubblico. Ha scritto un romanzo popolare contemporaneo per un lettore che non vuole soffrire, un libro divertente, pieno di dialoghi arguti, una auto-fiction di quelle che vanno di moda in quest’era di ostentazione compulsiva del sé, utilizzando Viola, un suo alter-ego di 38 anni, che vive sola con un bambino intelligente ma “talebano” come sanno esserlo soltanto i figli di genitori stravaganti (ricordo, ad esempio, che Marianne Faithfull diceva lo stesso di suo figlio). C’è dentro Milano, che Selvaggia, nata a Civitavecchia, rivendica come “sua”, c’è dentro l’amore, ci sono dentro uomini stronzi e altri meno stronzi, c’è dentro anche la politica, ma così, senza i drammi e le passioni che la politica scatena in Italia. C’è dentro un vasto campionario di soprannomi, vestiti, smagliature, tecnologie, ristoranti.
È letteratura? Diciamo che è senz’altro narrativa. Cosa manca alla seconda, per diventare la prima? Le manca, forse, quella che Harold Bloom definiva “angoscia dell’influenza”, che non è la paura generata dalla febbre aviaria ma il timore reverenziale, misto a volontà di sfida, che ogni scrittore dovrebbe coltivare nel misurarsi con i Grandi, con i maestri della letteratura che lo hanno ispirato. E non basta che la citazione che apre il romanzo sia tratta nientemeno che da Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock di Eliot.
Ma credo che all’autrice non importi. Nel suo blog parla di cantanti, attori, presentatrici, di moda&amori (anche della Terra dei Fuochi, sì). Mai di libri, mai di letteratura, se si esclude una stroncatura delle 50 sfumature di grigio.
In queste pagine, vivaci, piene di ritmo, troverete espressioni come “agghiacciante sigletta”. Battute di spirito prese di peso dal conversare radiofonico che ci accompagna in autostrada, o dalle serate dei talenti comici che riempiono le piazze di quest’Italia agrodolce, come “un’orgia di denti piazzati ciascuno in una posizione diversa del Kamasutra”, o “una come me, con la preparazione atletica di un bradipo zoppo”. Ve lo consiglio come libro da leggere quest’estate sotto l’ombrellone? No. Perché, per me, sotto l’ombrellone non ci si va. E se proprio ci si deve andare si legge comunque La morte a Venezia, o perlomeno l’ultimo Jonathan Lethem, che abbiamo recensito su questa rubrica due settimane or sono.
Però, non dev’essere male vivere nel mondo di Selvaggia. Con le sue battute acide e la sua levità.
Selvaggia Lucarelli, Che ci importa del mondo, Rizzoli, 2014.