Per coloro che, come chi cura questa rubrica, la crisi finanziaria l'hanno vissuta da cronisti, oltre che sulla pelle di privati cittadini, ripercorrerla in saggi, pamphlet e libri, è un po' come rileggere un grande copione. Un copione fatto di discese ripidissime, stati di falsa quiete seguiti da tempeste prolungate, costellato di termini esotici che hanno rivoluzionato il modo di parlare, come «subprime», «spread», «swap» e «defualt». Un copione che ha profondamente segnato la società, tradita dal sogno global e sempre più spesso arroccata nel rifugio local.
E' quello che può accadere a chi, come «Economania», si è imbattuto nella lettura di Stress Test, il libro che porta la firma di Timothy Geithner, l'ex segretario al Tesoro di Barack Obama, grande protagonista di una delle pagine più difficili della recente storia americana. Chi come noi ha scritto di questa crisi, ormai assodata come la peggiore dai tempi della Grande Depressione, ha scritto decine di volte il nome di «Tim», così come ha scritto queste due parole «Stress Test». Si tratta di quegli esami a cui le banche sono state sottoposte all'indomani dello tsunami finanziario, per verificarne la solidità in termini di capitale e liquidità, ed affinché non si riproponessero quelle condizioni che hanno portato alla contrazione creditizia privata del 2008 e 2009. Ebbene, Geithner ha parafrasato questa accezione puramente finanziaria per descrivere lo stato d'animo in cui lui, l'amministrazione americana, i governi del Pianeta, e la cittadinanza del mondo si sono trovati ad aver a che fare per un prolungato periodo di tempo nell'affrontare una situazione che a tratti è sembrata irrisolvibile, a causa di sottovalutazioni di partenza, negligenze diffuse e posizioni dolose.
Il segretario con la faccia d'angelo ripercorre quei momenti con lucidità, senza lasciarsi andare a digressioni politiche – tranne una sortita di colore sui Tea Party – ma con spunti coraggiosi. Come quando spiega che salvare le banche non serviva a salvare Wall Street in sé, ma a evitare il «meltdown sociale».
Ovviamente questa affermazione è destinata a sollevare tutte le reazioni del caso, ma un fondo di verità ce l'ha: le banche si erano messe in una situazione tale da dover essere salvate, altrimenti a pagare ancora di più sarebbero stati i cittadini. Come chi in guerra si fa scudo degli attacchi del nemico con gli esseri umani. E' questo in sostanza il senso che si coglie tra le righe del libro di Geithner, da apprezzare così come quando alla presentazione del suo libro da Barnes & Nobles di Union Square, a New York, l'ex segretario, invitato a dare consigli ai suoi successori risponde: «Quello di ministro è un lavoro che quando finisce, finisce».
Da apprezzare per lucidità anche in un'altra occasione, quando lui e Obama si sottraggono alla trappola ordita da una non troppo occulta cabina di regia europea ai danni dell'ex premier italiano. Si, parliamo proprio di Silvio Berlusconi. Quando la crisi del credito privato diventa del debito pubblico, e dal Nuovo mondo si sposta al Vecchio continente, è l'Europa a spingersi verso il baratro, specie quella «periferica», quella chiamata dei Piigs (Protogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), i cui rispettivi governi non erano in grado di dare una risposta efficace all'incalzante precipitare degli eventi. Non che Bruxelles lo fosse, o la Germania, che si limitava a predicare un'austerità di comodo con la complicità di una Francia incline all'harakiri. Ebbene proprio questi presunti «crisis-manager» della Vecchia Europa – perché non si capisce chi altro possa essere stato – si sono sentiti investiti della facoltà di tramare con gli Usa per far cadere Berlusconi, tra tutti i leader (perdenti) il più scomodo e il meno accomodante al «pensiero unico» di Mastricht.
Così lo racconta Geithner a pagina 476 del suo libro, in due paragrafi che la dicono lunga sull'europeismo. Era il 2011:
«Ad un certo punto quell'autunno, alcuni funzionari europei ci hanno proposto un piano per far cadere Silvio Berlusconi, volevano che rifiutassimo di sostenere gli aiuti del Fondo monetario internazionale fino a quando lui non fosse rimasto fuori gioco – scrive l'ex ministro del Tesoro – Noi riferimmo al presidente quanto ci era stato detto, ma così come avremmo auspicato una migliore leadership europea, allo stesso modo non potevamo rimanere coinvolti in un piano di questo tipo». Lo stesso Geithner dice: «Non potevamo sporcarci le mani col suo sangue».
Così Obama opta per un'altra strada quella della maggiore cooperazione con Mario Draghi e la Banca centrale europea. Poco dopo arriva il famigerato vertice G-20 di Cannes, quello delle risatine tra Angela Merkel e Francois Sarkozy (guarda caso), e come per incanto l'Italia partorisce un nuovo premier, Mario Monti, un avvicendamento molto tecnico che sorprende Washington stessa.
Ora, per quanto si possano dedicare fiumi di inchiostro a Berlusconi, i suoi modi, le sue uscite, le sue inchieste, la sua condotta o malacondotta, la sua vita privata diventata di pubblico arbitrio, i suoi bunga-bunga, le sue barzellette le sue gaffe, i suoi amici, i suoi nemici, le sue bandane e i suoi doppiopetti, e ancora tanto altro, qui è in ballo una questione fondamentale. Gli «European officials» menzionati da Geithner (a questo punto essi stessi ministri o loro esecutori materiali) hanno provato a forzare la sovranità di uno Stato.
Ripeto, con tutte le controindicazioni del caso, Berlusconi era stato eletto dal popolo con un sistema democratico che in quel momento, seppur con tutti i vizi meccanici, era quello che serviva a garantire la rappresentatività nazionale. E per di più lo hanno fatto in nome dell'Europa (ovviamente della loro Europa) e tentando la sponda con gli Yankee, gli stessi verso cui puntavano l'indice fino a qualche giorno prima. Gli Yankee però, si sono dimostrati più trasparenti di quelli che dovrebbero essere i fratelli d'Europa, i protagonisti dell'unione politica continentale. Occorre quindi chiederci, e lo facciamo proprio nella settimana delle elezioni, chi sono veramente i nostri partner? Forse tra loro ce ne sono alcuni tanto antieuropeisti quanto taluni movimenti populisti o nazionalisti. Le urne questa volta forse ce lo diranno, è una questione di giorni e potremo capire se sulla pelle dei privati cittadini e sui taccuini dei cronisti la fà da padrona posto un'altra crisi, quella identitaria dell'Europa. Una crisi che ha germi ben più antichi di quelli descritti, magari non troppo inconsapevolmente, dal segretario con la faccia d'Angelo. Forse un modo per togliersi una soddisfazione per Tim Geithner, ma senza dubbio per l'Europa il più significativo degli stress test.