Successe in questi giorni, 68 anni fa. Era il 9 febbraio del 1942 quando un incendio si sviluppò a bordo del transatlantico francese Normandie, ormeggiato nel porto di New York dove la Marina americana lo stava allestendo per il trasporto delle truppe impegnate nella Seconda guerra mondiale. La nave, devastata dalle fiamme, si inclinò su se stessa per il peso dell’acqua con cui nel tentativo di salvarla la sommersero i pompieri. I fotografi ne immortalarono l’agonia. E i giornali, ascoltate le autorità militari e investigative, decretarono frettolosamente: sabotaggio di un gruppo di agenti nazisti infiltrati. Una sentenza che archiviò il caso. A questa versione credette anche il grande regista Alfred Hitchock che, nel giro di poche settimane dal fatto, usò l’episodio per il suo I sabotatori (1942).
Ci vorranno oltre cinque decenni perché, nel 2003, salti finalmente fuori la verità. Emerge dalla Biblioteca Vaticana, a chilometri di distanza, dall’altra parte dell’Atlantico. E’ in un foglietto scarno del controspionaggio Usa che, passato il tempo giusto, può essere desecretato. Quella paginetta chiarisce come da subito le autorità americane sapessero: nell’attentato al Normandie i nazisti non c’entravano nulla. Il fuoco era stato appiccato dalla mafia. Cosa Nostra voleva un’azione dimostrativa per trattare da un posizione di forza una questione delicatissima: la fine del carcere duro per Lucky Luciano, il boss dei boss. Che in effetti, dal severissimo penitenziario in cui era stato spedito a scontare cinquant’anni, venne spostato in una struttura più morbida. Pare che a trattare per Luciano si fosse mosso un altro mammasantissima, Vito Genovese. Arrivò a parlare con Thomas Dewey, procuratore dello Stato di New York che, sulla lotta alla criminalità organizzata e a Luciano, aveva costruito la sua carriera che lo portò l’anno dopo alla carica di Governatore. Dewey avrebbe incontrato Luciano. Dicendogli di non illudersi: niente sconti di pena, ma in quanto a un carcere più soft, si poteva parlarne. Poi ci fu l’episodio, mai chiarito, dell’impiego di Luciano in una missione segretissima in Sicilia, per preparare la strada alle truppe americane.
“Quella piccola paginetta uscita dalla Biblioteca Vaticana e di cui mi aveva parlato un amico mi ha fatto venire l’idea” racconta Vito Bruschini. Un passato da sceneggiatore, autore di oltre 300 documentari, giornalista (con Giorgio Bocca ha scritto le dieci puntate di Storia degli italiani: dall’unità al terrorismo, oltre ad avere diretto varie riviste tra cui Quark Magazine) e un presente da direttore dell’agenzia di stampa Globalpress Italia, Bruschini per la verità all’inizio non si era ancora deciso. Poi, per caso, gli capita di sentire la frase di uno straniero: “Possibile che non si facciano più romanzi come Il Padrino?”.
Scatta la molla. In sette mesi, da febbraio ad agosto del 2007, si mette alla tastiera. Ed esce il suo primo romanzo: The Father, il padrino dei padrini, quasi 500 pagine edite da Newton Compton che, a Roma all’ultima fiera “Più libri più liberi” diventa un caso, collezionando una serie di successi insperati per un’opera prima. I diritti per la traduzione vengono comprati subito da cinque paesi europei. Il libro non era ancora negli scaffali e già un regista, Alessandro D’Alatri, se ne assicurava i diritti cinematografici. “Perché mi ero innamorato di questa storia forte quando l’avevo letta ancora in bozze”. La pellicola, quasi certamente, verrà girata negli Stati Uniti. In effetti, il lavoro era stato pensato inizialmente per farne un film: un progetto che la Warner, nel 2006, aveva persino approvato.
Storia e personaggi sono inventati, si dice sempre così no? Ma, oltre all’incendio del Normandie, c’è almeno un altro episodio realmente accaduto da cui parte The Father. Negli anni Venti, a Palermo i rappresentanti delle 40 famiglie di latifondisti più ricchi dell’isola, si riuniscono preoccupati per le tensioni sociali che attraversano il Paese e allarmati dalla mancanza di rassicurazioni da parte di Roma. Danno vita all’Interprovinciale che poi sarebbe diventata la Commissione: è in nuce quello che poi sarebbe diventata la Mafia di cui tutti sappiamo.
Da qui Bruschini comincia a lavorare di fantasia ma mischiando episodi veri, tra cui il viaggio di Luciano in Sicilia. Crea un personaggio davvero inquietante: il principe Ferdinando Licata, detto U Patri, siciliano con sangue inglese da parte di madre. E’ lui “The Father”. Lo vediamo, all’inizio, tra i partecipanti più attivi alla storica riunione dei latifondisti a Palermo. Poi va a New York. Viste le sue origini, sa muoversi bene nel mondo anglosassone. Dietro l’aria e i modi da gran signore è in realtà violentissimo. E così si fa largo tra le “famiglie”.
Per certi versi Licata è il rovescio della stessa medaglia del principe di Salina. Il protagonista del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa guardava con distaccato disincanto alla rivoluzione sociale che stava mettendo fine al suo mondo. Aveva capito, come gli dice il nipote Tancredi, che “perché tutto resti come prima, tutto deve cambiare”. E lasciava fare, lui non ci pensava proprio a sporcarsi le mani. Il principe Licata, invece, sì. E i suoi massacri, orge di sangue sparso con fredda crudeltà, vengono raccontati da Bruschini con uno stile quasi piatto, da colloquio tra amici al bar. Amici che, però, si raccontano storie tremende.
Saranno pure 500 pagine ma si leggono veloci. Perché, seguendo gli intrighi e le carneficine si capisce come è stata ideata, costruita e consolidata la Cupola. E Licata è sì, davvero, il padre e capofila di quei padrini a cui poi ci ha abituato la cinematografia di Hollywood.
Dalla lettura si ricava pure un’impressione che, se non si trattasse di vicende terribili, farebbe persino sorridere: forse anche la criminalità organizzata è soggetta ai corsi e ricorsi storici. Ciò che quasi certamente è avvenuto nel 1942 tra Cosa Nostra e la Procura di New York ricalca – anzi: anticipa – quasi perfettamente la strategia messa in atto un po’ rozzamente da Totò Riina, l’ultimo capo dei capi. Anche qui a far venire il sospetto è un altro “papello” . Non è uscito dalla Biblioteca Vaticana ma dalle tasche del figlio dell’ex sindaco palermitano Vito Ciancimino. In questo foglietto Riina, dopo le stragi del 1992, proponeva allo Stato di mettere fine agli attentati in cambio di una serie di sconti, tra cui l’alleggerimento del 41 bis, il carcere duro, per i mafiosi in prigione. A parlare della trattativa è stato lo steso procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso. La storia non si ripete mai in maniera esatta. Ma, come aveva commentato l’attore Beppe Fiorello che alla fiera di Roma, seduto accanto a Bruschini e al regista D’Alatri, aveva letto alcuni passi del libro: “La realtà narrata in questo romanzo somiglia alla realtà politica del nostro paese”. Mettendo insieme la vicenda del Normandie e il “papello” di Ciancimino, è difficile non pensare al filo rosso, rosso sangue, che le unisce: la cinica consapevolezza della filosofia gattopardesca. Appunto: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.