Da tre mesi passo le mie giornate di lavoro in compagnia di Carlo Levi, o meglio, passando e ripassando davanti a una quarantina dei disegni che realizzò mentre era ricoverato in clinica per due interventi chirurgici per il distacco della retina nel 1972. A 70 anni, quasi immobile e con visione molto limitata, a tratti ai limiti della cecità, Carlo Levi non smise per un solo giorno di scrivere e di disegnare. Per farlo in relativa autonomia si fece costruire due telai di legno con fili di ferro: uno dei telai aveva solo due fili perpendicolari che dividevano il foglio in quattro per aiutarlo a disegnare, mentre l’altro ne aveva diversi tesi in maniera parallela come le righe di un quaderno. Le riflessioni che Levi fece in questi mesi di sofferenza e convalescenza sono una specie di diario e vennero pubblicate da Einaudi qualche anno dopo la morte di Levi in un volume intitolato Quaderno a cancelli.
I 145 disegni vennero invece acquistati da Antonino Milicia, un contadino siciliano emigrato in Svizzera che da ragazzo aveva sentito una conferenza di Carlo Levi per i lavoratori italiani emigrati e che per la prima volta si sentì, proprio da Levi, apprezzato per ciò che era. Per la prima volta in mostra fuori dall’Italia, i disegni di Levi furono realizzati con tecniche diverse: dalla matita al pennarello, al pastello e ruotano attorno a diversi temi ricorrenti: l’autoritratto, il ritratto della madre e delle persone care, il mito di Narciso, gli amanti, i paesaggi che tendono all’astratto, gli animali, in particolare il gufo che è l’uccello che vede nel buio, un po’ proprio come Levi stesso che in quel periodo disegnava quello che ‘vedeva’ dentro di sé, non potendo vedere fuori da sé.
Carlo Levi è uno dei pochi nomi di italiani contemporanei che gli americani colti riconoscono, insieme a quello di Primo Levi, Italo Calvino, Umberto Eco. Il suo libro Cristo si è fermato ad Eboli, venne tradotto e pubblicato negli USA un paio d’anni dopo l’uscita in Italia e fece la fortuna di una piccola casa editrice appena fondata (Farrar, Straus and Giroux), che è oggi tra le più prestigiose d’America e viene costantemente ristampato in una bella traduzione che non conosce la sfida del tempo. Il film per la televisione di Francesco Rosi, interpretato da Gian Maria Volonté venne ridotto (rispetto alle 4 ore della versione originale) per la distribuzione nelle sale americane e consolidò la fama di Levi. La versione originale è appena stata restaurata e dotata di nuovi sottotitoli da Rialto Pictures che la distribuisce nelle sale d’essai e sta appassionando i cinefili delle principali città americane.
Pochi però qui sanno che Carlo Levi, pur dovendo la sua fama a quel libro prezioso che, in maniera sofferta e personale, portava a conoscenza del mondo la situazione di arretratezza, e disagio delle campagne del Sud, in realtà voleva essere soprattutto un pittore. La medicina che abbandonò dopo la specializzazione a Parigi, l’attivismo politico, e la scrittura le trovò in qualche modo sulla sua strada, mentre la pittura l’abbracciò con determinazione fin dall’inizio e non la volle abbandonare nemmeno quando la malattia sembrava volergliela togliere.
Questa mostra coi suoi disegni che ogni giorno mi accolgono al lavoro è un invito potente ad abbracciare le nostre passioni e a continuare a coltivarle anche nei momenti più difficili.
Blind Visions
Carlo Levi’s Disegni della Cecità
Curata da Nino Sottile Zumbo
Con la partecipazione di Antonino Milicia
In mostra fino al 13 Dicembre
Presso la Casa Italiana Zerilli-Marimò, NYU