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in Arte e Design
June 28, 2019
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In mostra a New York, la storia dell’arte americana del secolo scorso

Si chiama "The Whitney’s Collection. Selections from 1900 to 1965", ed è l'ultima, imperdibile installazione del museo Whitney

Floriana FrigentibyFloriana Frigenti
Time: 5 mins read

A soli due mesi dall’apertura dell’attesissima Biennale, il museo Whitney di New York ha inaugurato ieri una nuova mostra: “The Whitney’s Collection. Selections from 1900 to 1965”.  

In un’estate appena iniziata ma già piena di eventi culturali, il Museo di arte americana cerca di prendersi una fetta di pubblico più grande del solito, anche perché la chiusura temporanea del MoMa (dal 16 giugno al 16 ottobre) ha lasciato qualche orfano.

Più che una mostra su un singolo tema o artista, l’esposizione riordina e ripropone alcuni tesori della collezione, tra questi, tele che giacevano in deposito e non si esponevano da circa quarant’anni e che il curatore della mostra, David Breslin ha riportato nelle sale.

Anche i musei, insomma, fanno le “pulizie di primavera”.

“The Whitney’s Collection. Selections from 1900 to 1965” espone circa 120 lavori tra dipinti, fotografie, sculture e video che raccontano la storia della creazione del Whitney Museum fondato nel 1930 da Gertrude Vanderbilt Whitney.

Gertrude era artista e appassionata di arte ed il Whitney è l’unico museo della città creato da un artista e non da un collezionista. A lei il merito e il coraggio di aver proposto e sponsorizzato l’arte moderna americana, negli anni in cui si riteneva che solo l’arte europea fosse rispettabile. Gertrude era un precursore dei tempi che acquistava ed esibiva regolarmente lavori di artisti emergenti. Era anche una donna che privilegiava la sperimentazione sull’ideologia e questa mostra è stata creata su questi valori.

Il Whitney Studio, creato nel 1914 era una specie di “salone” dell’arte, uno spazio dove gli artisti si potessero incontrare ma anche un movimento per l’apprezzamento dell’arte americana.

È solo nel 1930 che si comincia a pensare ad un museo, quando la collezione della signora Vanderbilt-Whitney contava circa cinquecento pezzi e lo spazio cominciava ad essere limitato.

“It feels like you are back at the Whitney again”, “Sembra di essere tornati al “Whitney”, esordisce Adam Weinberg, il direttore del museo, durante la conferenza stampa. Sta parlando ad un pubblico di nostalgici che hanno conosciuto e frequentato il museo nella sede precedente su Madison Avenue.

Questa installazione, la quarta che David Breslin cura, è un’introduzione alla storia del museo e a lavori conosciuti e preferiti ma presentati meno frequentemente di altri.

Sulla selezione delle opere da esporre per questi 65 anni di arte americana, Breslin spiega “Non c’è un modo corretto o unico di fare arte, di essere un artista o di fare una mostra, ma se rendi omaggio all’artista e al suo lavoro, sei già a buon punto”.

Le gallerie esplorano diversi temi: paesaggi, fantasia e surrealismo, movimento, astrattismo e pop art. 

Ad attendere i visitatori, appena fuori dagli ascensori, una parete fitta di quadri che va letta da destra a sinistra per ripassare la storia del museo Whitney iniziando proprio dalle foto di Gertrude Vanderbilt Whitney e di Juliana Force, la prima direttrice del museo.

Le pareti blu e i quadri vicinissimi l’uno all’altro, come il soggiorno di un collezionista innamorato, richiamano l’atmosfera del Whitney Studio, le cui foto del 1933 sono appese al muro. Tra gli artisti di questa prima stanza, John Steuart e il suo “Battesimo a Kansas”, la tela ad olio del 1928 che illustra un battesimo avvenuto nella cisterna d’acqua di un paese americano in mezzo alla prateria americana.

Si procede poi nella stanza che parla del futurismo e dell’industrializzazione. C’è Charles Demuth, le foto di Margaret Bourke-White ma anche il ponte di Brooklyn dell’italiano Joseph Stella. Nella contemporaneità di questa sala, le fabbriche sono le nuove “cattedrali” delle città, siamo a dieci anni dal crollo finanziario ma nella tela di Florine Stettheimer si vede una New York in fermento e con i grattacieli in costruzione.

Nella terza stanza una piccola parete divide due grandi maestri che vengono spesso associati al museo: Georgia O’Keefe con il suo “Summerdays” la tela con il teschio di animale e i fiori sospesi su un deserto, il suo celebre “Music, Pink and Blue No.2” e poi Edward Hopper, con “Soir Blue” che governa la sala, la tela dove un operaio, una prostituta, due borghesi e un clown sono seduti all’aperto alla fine di una festa o “A woman in the sun”, il ritratto di sua moglie Josephine. Ma il vero tesoro di questa sala sono i quaderni di Edward Hopper che usava come registro delle sue opere, quando erano state finite, a chi erano state vendute e quando.

Su queste pagine, Hopper fa dei piccoli sketch di ognuno dei suoi quadri.

Una stanza buia e convessa presenta invece un altro gioiello della collezione: il circo di Alexander Calder, un micromondo di miniature circensi costruito con materiali semplicissimi come stoffe, sughero, pezzi di legno e fil di ferro.

Calder metteva in scena il suo circo per amici del calibro di Mondrian, Miró e Duchamp suoi contemporanei. L’installazione del circo contiene però solo la metà dei pezzi della collezione che sono ben trecento. 

Alexander Calder (1898-1976), Calder’s Circus, 1926-31 © 2019 Calder Foundation, New York / Artists Rights Society (ARS), New York

Nella stanza che viene dopo si parla di fantasy e di surreale, è l’inconscio che reagisce alla seconda guerra mondiale dove i corpi sono alienati. Questa alienazione si nota in “Mirror of Life” di Henry Koerner, l’artista austriaco che era stato al fronte e aveva perso i genitori nell’olocausto.

Mirror of Life è un quadro con tantissimi elementi e stati d’animo, ma soprattutto che parla di un mondo cambiato e caotico con una collina dove inneggia un luna park (Coney Island).

Degno di menzione, il video di otto minuti “Spook Sport” un corto di animazione che vede un piccolo spiritello a mo’ di apostrofo muoversi in una sequenza astratta e visionaria.

Il video è del 1939 ed è stato creato da Mary Ellen Bute, pioniera nel campo della sperimentazione cinematografica.

Una piccola galleria è dedicata alla serie “War” di Jacob Lawrence. Sono quattordici tele che lui ha dipinto nel 1946 per ricordare la sua esperienza da veterano. Storie di guerra precise e quotidiane: stare in trincea, imbracciare un fucile, ricevere una lettera con una brutta notizia. Il Whitney è stato tra le prime istituzioni a riconoscere il talento di Lawrence e le “War Series” sono imperdibili.

La Galleria dedicata all’astrattismo, accanto a tele famose di Pollock (Number 27) e De Kooning (Door to the river) mostra la recentissima acquisizione “American Totem” di Norman Lewis.

Norman Lewis (1909-1979), American Totem, 1960. © Norman Lewis. Courtesy Michael Rosenfeld Gallery LLC, New York, NY

Lewis, originario di Harlem, era un artista dell’espressionismo astratto e la sua tela fa parte di una serie di lavori in bianco e nero che esplorano l’impatto emotivo e psicologico del movimento sui diritti civili e le proteste di quegli anni. Il suo “Totem” richiama le fattezze di un incappucciato del KKK anche se e composto di più parti che sono un po’ teschi e un po’ maschere.

Nell’opera di Lewis, il terrore è rappresentabile ed astratto insieme. 

Infine l’ultima sala è dedicata alla pop art e alla cultura pubblicitaria: il panino hamburger di Wesselmann, la Madonna- Jackie Kennedy di Allan D’arcangelo, Marylin Monroe e il suo bodyguard che scappano dai paparazzi.

La mostra è speciale perché con poco più di 120 pezzi racconta bene un pezzo della storia dell’arte americana del secolo scorso. L’installazione sarà in mostra per i prossimi 18 mesi. Per maggiori informazioni: https://whitney.org/

 

 

 

 

 

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Floriana Frigenti

Floriana Frigenti

Sono nata in un piccolo paese del salernitano senza biblioteche né librerie, ma sono cresciuta comunque con la testa tra i libri e il sogno di vivere in una grande città. L’approdo a New York è arrivato dopo una lunga circumnavigazione: gli studi in management internazionale a Milano, una carriera nel marketing digitale prima a Berlino e poi a Londra, innumerevoli viaggi per provare, vedere e sentire tutte le emozioni. Sono una scrittrice appassionata di tutto ciò che è bello e ne tengo un resoconto qui https://www.instagram.com/spaghettisubway/

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