Tra le fortune di abitare in una città come New York, quella di vivere a (inserire numero) fermate di metropolitana dal MET è forse la mia preferita. Il Metropolitan Museum, è un po’ il nostro Louvre a ingresso libero (o meglio, ‘pay as you wish’): bellissimo, immenso ma gremito di locali e turisti.
Un modo per non farmi intimidire l’ho trovato: ci vado un po’ alla volta, come le gite della scuola, faccio visite a tema e soprattutto ci vado quando i volontari del museo o i curatori offrono i tour delle mostre del momento. Basta controllare la pagina “eventi’ del museo e poi aggiungere al calendario le visite guidate. Questa è una delle tante opportunità della grande mela.
Un cortese volontario del MET ci ha offerto una visita guidata della mostra “Epic Abstraction: Pollock to Herrera”, una selezione di opere dell’arte astratta nata a New York proprio con Pollock, e che ricopre gli anni dal secondo dopoguerra fino ai primi anni duemila. Le opere in esposizione sono più di cinquanta e vengono principalmente dalla collezione del MET ma anche da collezioni private.
L’astrattismo di quegli anni, o meglio, il bisogno di ‘astrarre’ viene interpretato come una risposta alla devastazione della seconda guerra mondiale; l’arte inizia a respingere la pittura e la scultura tradizionale: i sentimenti sono nuovi e servono nuovi strumenti comunicativi per esprimerli. Furono in tanti a pensare che l’arte astratta rappresentasse uno stato esistenziale più contemporaneo.
Perché la mostra si intitoli “Epic” appare chiaro fin da subito: le opere sono di grandi dimensioni! E pian piano si comprende anche il riferimento agli anni in cui nasce l’astrattismo: sono gli stessi anni in cui l’artista diventa più introspettivo, si fa grandi domande sulla storia umana e sul mondo; forse domande più grandi di se stesso.
Per vedere uno accanto all’altro i più famosi artisti di quegli anni bisogna visitare “Epic Abstraction”: Pollock, Rothko, de Kooning, ma anche (finalmente) donne come Frankenthaler e Nevelson.
Alcune delle opere più significative:
“Numero 28” di Jackson Pollock.
Il (non) nome la dice lunga, Pollock non voleva che lo spettatore si mettesse a cercare un significato o una figura nelle sue opere : esse andavano apprezzate per quello che erano. E proprio per questa ragione smette di dare nomi alle sue tele e le numera.
Pollock esegue Numero 28 con la tecnica di cui è egli stesso inventore: il “dripping”. Gli sgocciolamenti creano un’immagine senza un polo gravitazionale, dove tutto si ripete a 360 gradi, il risultato di un insieme di gesti fluidi e controllati. E se ciò non bastasse a rendere l’opera speciale, la si immagini eseguita con tutto il corpo: la tela è a terra e Pollock è in piedi in mezzo ad essa, armato di pennelli, bastoncini e secchi di pittura.
Numero 28 non è la riproduzione di qualcosa, ma rappresenta l’arte stessa del creare. E’ questa la rivoluzione di cui Pollock fu iniziatore.
‘Untitled’ di Kazuo Shiraga.
Shiraga era venuto a conoscenza della tecnica del ‘dripping’ di Pollock in una mostra a Tokyo nel 1951 e ne era rimasto fortemente colpito. Untitled è uno dei primi esperimenti in cui Shiraga utilizza tutto il suo corpo: sospeso sulla tela con delle corde che pendono dal soffitto, oscilla da un lato all’altro della stanza, dando vita alla sua opera.
Il risultato sono colori sanguigni e pennellate spesse, pesanti che suscitano subito un’ emozione nello spettatore. La forza e la ‘muscolosità’ del quadro sono evidenti e dirompenti: non possono passare inosservate.
“Western Dream” di Helen Frankenthaler.
Frankenthaler fa parte della seconda ondata dell’astrattismo ed il suo linguaggio è più pacato, meno aggressivo dei primi astrattisti.
Anche la sua arte viene influenzata moltissimo dal ‘dripping’ di Pollock, ma a Frankenthaler viene conferito il merito di aver creato un’altra tecnica: lo “staining”.
Per la sua “tecnica a macchia”, Frankenthaler utilizzava colori diluiti con la trementina, quasi a farli diventare degli acquerelli e , al posto della tela completa, un supporto di tessuto.
Anche Frankenthaler lavorava da terra, faceva sgocciolare della pittura e ne diluiva altra, si aiutava con i pennelli, aspettava che i colori si assorbissero, alzava gli angoli della tela per controllare dove il Tessuto dovesse assorbire il colore…
A spiegare in parte le sue intenzioni artistiche, le sue parole: “My pictures are full of climates, abstract climates, they’re not nature per se, but a feeling.”/ “Le mie immagini sono piene di climi astratti, non sono nature in sé, ma un sentimento”.
Helen Frankenthaler, si capisce dal nome, è una donna, e una delle artiste della mostra Epic Abstraction al MET sulla Quinta Avenue. Bravo MET ma più donne, per favore.