Apre al pubblico questo venerdì 17 maggio, la Biennale d’arte del Whitney Museum, per il piacere di chi a Venezia non ci può andare e per chi ama l’arte contemporanea. Nello spazio della Biennale, il museo Whitney si prefigge di mostrare il meglio dell’arte americana del momento e di lanciare artisti ancora poco conosciuti.
I curatori, o meglio, le curatrici di questa Biennale sono due donne, Jane Panetta e Rujeko Hockley e hanno raccontato di aver selezionato gli artisti dopo aver visitato trecento studi in venticinque città diverse, in poco più di un anno e mezzo. Il risultato è una selezione di opere di ben 75 diversi artisti, dove a parte la scultrice Diane Simpson, classe ‘35, il 75% ha meno di quarant’anni e dove più della metà sono donne.
La 79esima edizione di questa Biennale è spalmata su quattro degli otto piani del museo e non ha un solo tema ma tanti; visitandola ci si rende conto di quali sono le domande o gli argomenti più frequenti e pressanti: etnie, genere, vulnerabilità del corpo, immigrazione… La mostra è molto grande e variegata: ecco alcune delle opere che meritano una menzione.
Kota Ezawa – “National Anthem”
L’artista tedesco-giapponese presenta “Inno nazionale” un video cartone-animato dove i giocatori della NFL protestano contro la violenza della polizia su vittime disarmate e di colore.
La pratica di inginocchiarsi davanti alla bandiera è iniziata nel 2016 a San Francisco con il quarterback Colin Kaepernick. Il video è frutto del processo complesso che è mettere insieme più disegni ad acquerello (molti dei quali presentati al Frieze NeW York dalla galleria Haines).
Agustina Woodgate – “National Times”
L’opera dell’artista argentina è una riflessione sul tempo e sulla schiavitù delle regole. Si tratta
letteralmente di una stanza asettica dove quaranta orologi da parete sono appesi al muro e sono controllati da un orologio centrale. Questi stessi orologi si possono trovare nelle scuole o in prigione e ci ricordano che anche i nostri orologi digitali sono ‘schiavi’ di un sistema che gli detta il tempo (in America, l’ora ufficiale è fissata dal National Institute of Standards and Technology). Gli orologi di Augustina hanno un trucco: con il passare delle settimane e dei mesi, i numeri scompariranno..
Jeffrey Gibson – “People like Us”
L’artista nativo americano lavora con i tessuti per parlare della sua eredità culturale e usa patchwork di frange e trapunte per lanciare due messaggi: “stand your ground” (Difendi le tue idee) e “people like us” (Persone come noi). Nello spazio di questa mostra i due lavori sono appesi al soffitto e si prendono un angolo intero della sala; è impossibile perderseli.
Christine Sun Kim – “Degrees of My Deaf Rage in The Art World”
L’artista californiana mostra una serie di disegni a carboncino che rappresentano i diversi ‘stadi’ di quello che chiama ‘rabbia sorda’. Si tratta di grafici disegnati a mano che hanno qualche sbavatura, un po’ di giochi di parole e parlano della frustrazione di essere ‘diversamente abili’, in particolare sordomuti.
In alcuni disegni, un cerchio pieno, ad esempio, illustra gli anni passati con familiari che non conoscono la lingua dei segni. Il messaggio è forte e amaro insieme.
Marcus Fischer – Untitled (Words of Concern)
L’installazione dell’artista e musicista dell’Oregon è un vecchio registratore a cassette con il nastro che vi fuoriesce. Il lavoro è stato concepito il giorno prima dell’inaugurazione di Trump come presidente americano quando Fischer si trovava su Captiva Island in Florida per la sua residenza artistica. L’installazione è il frutto di una collezione di registrazioni dove gli artisti che si trovavano con Fischer parlano delle loro preoccupazioni sul futuro del paese: razzismo, ambiente, sessismo. La registrazione presentata alla Biennale è condensata in tre minuti e sembra di ascoltare un coro. Nelle parole di Fischer: “Tutte queste preoccupazioni che condividiamo ci dovrebbero dare forza invece di pesare su di noi”.
Brian Belott – “Fan Puuuuuuuff”
L’artista del New Jersey ‘gioca’ con tanti materiali per creare sculture che sono dei collage di pittura e di oggetti di uso quotidiano. Le suo opere, ed in particolare quelle cha hanno un ventilatore funzionante incastrato nel quadro, fanno un po’ il verso all’astrattismo. Avvicinarsi per guardare il lavoro da vicino significa letteralmente avere il vento in faccia. Senz’altro Belott si diverte a interagire con i suoi spettatori.
Le opere della Biennale sono tante, molte di difficile comprensione, alcune astruse (pregasi uscire sui terrazzi dei diversi piani a conoscerne le installazioni) altre crude, come le foto della nascita dei neonati di Heji Shin, altre ancora piene di significato come le sculture di Simone Leigh.
Ma la Biennale del Whitney non è solo arte, bensì un evento importante della vita cultura di New York e come tale fa parlare di sé per più ragioni…
Quest’anno l’evento si è aperto su un terreno controverso: Warren Kanders, il vicepresidente del consiglio di amministrazione del Whitney è anche l’amministratore delegato di Safariland, l’azienda di produzione di armi e dei lacrimogeni usati alla frontiera Stati Uniti-Messico.
Sono molte le proteste e i sit-in di questi giorni ed è curioso notare che il collettivo londinese Forensic Architecture, abbia ottenuto uno spazio, proprio all’interno della Biennale, per parlare di Safariland e degli attacchi della polizia contro i civili. Il lavoro del collettivo e’ un video di 15 minuti che si chiama Triple Chaser ed e’ narrato dal cantante David Byrne.
La mostra apre al pubblico venerdì e si potrà visitare fino al 22 settembre.