“Le donne devono essere nude per entrare al Metropolitan Museum? Meno del 5% degli artisti nella sezione di arte moderna sono donne, ma l’85% dei nudi sono femminili”: diceva così uno dei tanti manifesti apparsi nel 1989 davanti ai principali musei di New York e firmati dalle “Guerriglia Girls”, un gruppo di artiste anonime, nato nella Big Apple nel 1985 per far riflettere sul sessismo del mondo artistico.
È innegabile una maggiore attenzione negli ultimi 30 anni da parte di studiosi e media nei confronti dell’arte al femminile, ma è altresì indubbio che l’invito alla conoscenza e alla fruizione della bellezza artistica riflette ancora abbastanza i pregiudizi e “dogmi” di un mondo dell’arte per molti versi ancora patriarcale. Lo testimonia anche il fatto che non molto tempo fa alcune artiste hanno sentito il bisogno di creare su Facebook una pagina intitolata “chegenerediarte” per parlare e confrontarsi sull’universo artistico femminile.
È stato quindi con grande piacere aver potuto constatare, durante una piacevole passeggiata turistica, che il restaurato Castello Visconteo Sforzesco di Novara ha voluto dedicare, in contemporanea con una mostra di Andy Warhol, un’esaustiva rassegna – curata da Lorella Giudici – di Enrica Borghi, artista poliedrica ed eclettica che da quasi trent’anni, utilizzando materiali di scarto del nostro vivere quotidiano, indaga con le sue opere i temi del ri-uso, dell’ambiente, del territorio e della femminilità. Buste di plastica tagliate e intrecciate si trasformano in arazzi, unghie posticce e pagliette metalliche da cucina rivestono Veneri classiche, bottiglie di plastica assemblate si trasformano in un elegante abito da sera con lungo strascico. “Voglio raccontare la seduzione dei rifiuti, la possibilità alchemica della trasformazione”, ha detto Enrica Borghi, nata nel 1966 a Premosello Chiovenda, in Piemonte sulle colline del Parco Nazionale Val Grande.
Dal ’95, quando alla Galleria Alberto Peola di Torino presentò una serie di busti di ‘Veneri’ ricoperti di unghie finte o ornate di bigodini e bottoni automatici e abiti femminili – realizzati con sacchetti di plastica, e carta da confezione –, l’artista ha cominciato un fruttifero percorso nel mondo dell’arte che l’ha portata non solo a farsi conoscere in importanti città italiane ma anche all’estero, come conferma il fatto che il famoso Museo Mamac di Nizza ha voluto nella sua collezione stabile “Gran soirée”, lavoro creato da Enrica Borghi in occasione di una mostra presso la Galleria Gianferrari di Milano.
Oggi Enrica Borghi è tornata a vivere tra le colline, a Miasino, sopra il Lago d’Orta. Nel 2005, assieme ad un gruppo di artisti vari, tra cui anche il marito, ha fondato nella vicina Ameno, sul Lago d’Orta, l’associazione culturale “Asilo Bianco“, che si pone lo scopo di dar vita a un vero e proprio motore di crescita culturale sul territorio compreso tra il Lago d’Orta e il Lago Maggiore. Un motore che attraverso un continuo scambio di esperienze, e l’attenzione a ogni tipo di sperimentazione interdisciplinare, valorizza il territorio circostante. Intervistare Enrica Borghi ha significato la possibilità interiore di sprofondare sempre più nelle molteplici verità di tutto ciò che ci circonda, dagli oggetti alla natura.
Dà vita e bellezza a oggetti destinati alla discarica: qual è il background di questa scelta? Protesta o messaggio?
“All’interno della mia ricerca artistica, questi due aspetti ci sono entrambi. Utilizzare materiale di scarto non è solo denuncia ma, attraverso il riciclo, e quindi ridando vita allo scarto, c’è un messaggio positivo: quello che tutti noi potremmo effettivamente prenderci la responsabilità di riutilizzare i rifiuti, di dargli una nuova vita. I rifiuti non dobbiamo pensarli come una cosa da gettare e nascondere. Mi piace osservarli come un’energia che potrebbe essere riutilizzata, rinnovata. Certo, esiste anche un messaggio di denuncia, perché in effetti migliaia di bottiglie e sacchetti di plastica oggi invadono le nostre case, i nostri mari e i nostri pensieri. Dobbiamo stare molto attenti all’utilizzo di questo materiale artificiale che, come tutti sappiamo, abbandonato nell’ambiente vi resta per migliaia di anni. E soprattutto dobbiamo stare attenti all’ enorme quantità che oggi viene prodotta”.
Quando è stata “sedotta” dai rifiuti? C’è stato un momento, un evento particolare?
“Tutto è iniziato quando ho cominciato a vivere da sola, quando avevo circa 27-28 anni, dopo l’Accademia di Belle Arti. Facendo la spesa, come tutti i cittadini, mi sono resa conto che quello che mettevo nel frigorifero era, rispetto a tutto il packaging di scarto che dovevo gettare, incredibilmente poco. Questa differenza tra contenuto e contenitore, questa enorme quantità di confezioni da gettare quotidianamente, mi è parsa subito un aspetto su cui dovevo indagare, riflettere; anche perché il packaging ha in sé non solo il fatto che essendo plastica ha finito il suo destino di vita ma anche perché ha moltissime qualità: come per esempio il gioco della trasparenza, la forma del materiale, la superficie ed il colore. Un design pensato per poter contenere un prodotto ed in modo accattivante venderlo! Da questo è nata l’idea di indagare tra i rifiuti del quotidiano”.
Una volta si creavano grandi sculture per essere viste tutta la vita, oggi tutto cambia in fretta: come si pone davanti a questo fatto?
“Molti artisti contemporanei oggi non si pongono questo problema, volutamente, perché una volta si pensava che tutto doveva restare, essere tramandato. Forse oggi, nella società dei consumi, dove tutto è così ‘usa e getta’, così veloce, anche l’artista decide di utilizzare altri sistemi per comunicare la propria ricerca artistica. Io stessa utilizzo materiali che, come nel caso della plastica, può durare milioni di anni senza decomporsi. Mi pongo in modo sia critico che sedotta da questo materiale perché lavorandolo con il calore si deforma, si può tagliare, sezionare, piegare. La plastica biodegradabile si polverizza ed è altrettanto interessante proprio perché effimera: tutto questo fa parte della mia ricerca. Anche il collezionista di oggi ‘deve stare al gioco’ e capire che la bellezza dell’arte va vissuta per quell’istante, come un messaggio della vita stessa, della sua brevità, del tempo che fugge”.
Che valore hanno per lei i concetti di vecchio e nuovo?
“Ho sempre pensato che c’è un percorso circolare, non c’è un vecchio e un nuovo: è un percorso che si ripete di continuo, si continua a riallacciare con la storia. Anche il mio lavoro, per quanto la plastica possa sembrare un materiale di poco valore, coglie la sua memoria nell’antica valenza della trasparenza delle vetrate neogotiche. Quindi un elemento contemporaneo che si confronta con il ‘classico’ della nostra storia dell’arte. Credo che l’arte sia proprio un continuo dialogo tra vecchio e nuovo, senza una cesura ma proprio con una dialettica continua. Nel mio lavoro è così: utilizzo, per esempio, delle Veneri classiche e le rivesto con delle unghie finte. Creo un continuo rimando ad un riferimento storico. L’uomo si è sempre posto delle domande sul tema della raffigurazione della bellezza, dalle statuine preistoriche della fertilità alle statue greche alle foto delle riviste patinate. Io ho pensato ad una venere della contemporaneità con un turbante fatto di uno strofinaccio per pavimenti. Ritengo che i grandi punti di domanda esistenziali di oggi siano simili a quelli degli uomini primitivi, come per esempio guardare un cielo stellato e chiedersi cosa c’è al di là di questo. Il mistero dell’infinito, della morte penso sia uguale oggi come migliaia di anni fa”.
Nel linguaggio artistico contemporaneo, parole come “novità” e “originalità” sono ricorrenti: le sue creazioni sono solitamente il frutto di attimi fulminanti di ispirazione o di un lento processo di maturazione?
“Credo siano il frutto di un mio continuo dialogo con la storia dell’arte. Ho frequentato il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti e lo studio della storia dell’arte è stata una prassi. Questo mi ha sempre entusiasmato moltissimo! Mi ha permesso di conoscere e di poter cambiare il linguaggio attraverso nuovi materiali. In realtà partendo dalla storia credo che i miei lavori siano sì originali – se posso usare questo termine -, abbiano una freschezza di linguaggio, ma in realtà c’è in loro una sedimentazione di pensiero che va al di là del fatto che siano una semplice novità. Anzi, la capacità di riutilizzare materiali di scarto credo non sia nulla di nuovo: i nostri nonni riutilizzavano per esempio vecchi tessuti, vecchi oggetti per farne altre cose, si inventavano nuove storie con i materiali che possedevano. Penso che ci sia in queste opere semplicemente un sogno, nulla di nuovo ed originale. Per quanto riguarda il mio slancio di creatività? Avviene proprio lavorando sul materiale stesso. A volte andando al supermercato e osservando la serialità dei contenitori, sempre più seducenti come forma, come colore: resto catturata dall’acquisto, non perché è un prodotto particolare ma per come un designer, ha pensato alla forma, al colore, e ritengo che tutto questo abbia in sé delle grandi potenzialità. In studio poi inizio a ‘sezionare’, ad indagare quell’oggetto e nascono nuovi pensieri e nuove idee, nuove narrazioni”.
Molti dei suoi lavori trovano forma nell’ambito dell’universo femminile: è solo perché lo conosce di più o una scelta motivata da un preciso “messaggio”?
“Anche qui una cosa non esclude l’altra. Vuole anche essere un messaggio post-femminista: ritengo che ad oggi il tema del femminile sia ancora da indagare. Non voglio prendere una posizione politica post-femminista, però in realtà credo che tutto il movimento che ha lottato per i diritti delle donne in qualche modo debba continuare a cercare nuove capacità di analisi del femminile, farsi delle domande e non dare nulla per scontato. Per esempio continuare a non arrendersi rispetto ai canoni della bellezza perché questo sistema consumistico pretende una bellezza scontata rispetto ad altre, insomma continuare ad interrogarsi, tenere alta l’asta dell’attenzione per non finire nella strumentalizzazione dei media e della stessa società. Questa è una scelta cosciente, voluta, nelle mie opere. Dopo l’Accademia, dopo aver fatto il percorso di scultura del marmo, mi sono resa conto che io, come donna, non volevo assolutamente entrare in questa dinamica di narrazione con materiali cosi difficili da dominare, con narrazioni che non mi appartenevano. Non sentivo proprio il mio corpo disposto a picchiare sulla pietra…volevo narrazioni femminili, e quindi, volutamente ho affrontato altri materiali ed altri strumenti che mi sembravano più congeniali alla mia poetica. Quindi il tema del femminile è stata una scelta voluta, sia per il fatto che sono donna sia perché penso che le donne, quindi non solo donne artiste, hanno ancora tantissimo da ricercare e tantissimi diritti da sottolineare”.
Le sue opere, minimali o grandi che siano, sono piene di luce propria, giocando sui riflessi che i rifiuti possono creare: c’è qualcosa di particolare, o personale, dietro questa scelta?
“Sono nata in montagna. Il ghiaccio e la sua trasparenza, mi sono sempre sembrate delle magie. Da piccola con i miei compagni costruivamo dei piccoli igloo con la neve, questo mondo fantastico in cui osservavo i piccoli cristalli di ghiaccio, il fiocco di neve che non riuscivi mai a tenerlo nella mano perché si scioglieva: ecco, queste memorie mi sono rimaste per certi versi come degli elementi di narrazione. La trasparenza mi è sempre sembrata un elemento della luce, spesso da me utilizzata nei lavori. La ritengo un elemento interessante che funziona su oggetti che pensiamo abbiano finito la loro esistenza: ridare loro vita attraverso la luce! Una vera alchimia!”.
Anche la moda trova spazio nei suoi lavori: che significato ha nel suo universo creativo questa scelta? È stata motivata da qualcosa in particolare?
“I primi abiti, parliamo del ’95-’96, sono nati in realtà nello stesso momento in cui ho iniziato ad analizzare gli elementi di scarto, sono nati dal desiderio di essere il più sincera possibile nella rappresentazione di me stessa. Ho pensato che l’abito poteva essere un diario che raccontava effettivamente la mia esistenza. In quel momento pensavo davvero ‘cos’ero io’, se ero ciò che stavo accettando o ciò che stavo rifiutando. Ecco, ero in quella dualità continua per cui noi decidiamo di tenere ed accettare alcune cose della nostra vita (perché ci sembra una cosa positiva, che funziona) e quello che invece riteniamo di voler buttare via. Mi ero resa conto che quello che io buttavo (il sacchetto del supermercato, della panetteria, della mozzarella che mangiavo) in realtà ero io. Una persona se avesse voluto conoscermi effettivamente poteva andare a rintracciare nei rifiuti la mia identità. Ho allora cominciato a tagliarli, sezionarli, ad annodarli, lasciando su di loro un indirizzo, un’etichetta perché volevo dare un segno della mia traccia. Ho costruito questi abiti, che, nella prima mostra del ’96 a Torino, ho indossato ed era effettivamente l’abito più vicino alla mia identità: non era una ‘corazza’, ero me stessa, più ‘nuda’ di quando ero vestita. Ero quella che effettivamente sono tutti i giorni, una narrazione molto intima che eliminava la barriera tra il mio essere ed il mio apparire”.
Chi e quali eventi sono stati i referenti importanti in questo suo più che ventennale viaggio artistico?
“Sicuramente gli esordi nel ’95-’96, la prima mostra ad Alberto Peola a Torino e la collettiva “Trash, quando i rifiuti diventano arte”, curata da Lea Vergine a Trento. Poi nel ’99, il Castello di Rivoli, Museo di arte contemporanea con l’installazione “La Regina”, in collaborazione con il Dipartimento Didattico. Questo grande, enorme abito – fatto con bottiglie di plastica trasparenti- che tuttora mi accompagna, dedicato ai bimbi ma anche agli adulti voleva essere una fiaba, un sogno fatto di rifiuti! E ogni volta che lo espongo (attualmente alla mostra Reuse a Treviso) è sempre una grande magia! Poi la mostra presso il Mamac di Nizza del 2004-2005. I musei sono un’opportunità per rafforzare il lavoro, per pensare a progetti più coerenti, sia per lo spazio, normalmente più grande delle gallerie private, sia per sfidare se stessi e mettersi alla prova fuori dal proprio studio, con un pubblico più vasto. Tra il ’95-’96 e il 2005 c’è stata una forte accelerazione della mia ricerca , tanto che non sempre riuscivo a seguire in modo coerente tutto quel processo. Un’altra cosa interessante, sono state le pubblicazioni, che spesso sono diventati dei libri d’artista. I cataloghi sono delle pause di riflessione per rileggere il mio percorso, cosa sto facendo e vedere in modo più omogeneo l’intero processo e successivamente… poter ipotizzare nuove storie”.
C’è qualche artista che l’ha particolarmente influenza nella sua formazione?
“All’Accademia di Belle Arti a Milano il mio insegnante era Alik Cavaliere. Lui ci ha sempre spinto a non arrendersi, a studiare sempre i materiali, a sperimentare, leggere, frequentare le biblioteche. Poi l’aver scoperto, prima nella biblioteca dell’Accademia, il gruppo di Torino dell’Arte Povera e anche il nuovo realismo francese: artisti, cioé, che effettivamente avevano messo in atto già il lavoro con altri materiali, compreso – anche a livello concettuale – tutto ciò che era elemento di scarto Penso alla ‘Venere degli stracci’ di Michelangelo Pistoletto, ma anche il tema della classicità, che in qualche modo fa riferimento a Giulio Paolini. Forse non c’è stato un artista in particolare, mi sono sentita sempre una spugna bisognosa di assorbire in modo incredibile”.
Come definirebbe, per chi non la conosce, la valida, innovativa esperienza di Asilo Bianco?
“Oggi posso dire che sicuramente è una riuscita esperienza di arte relazionale, o public art o arte sociale. Oggi moltissimi artisti stanno lavorando anche a livello internazionale in questo ambito. Quando è stata una grande scommessa. Provare ad uscire dalla sfera dell’artista, del suo privato, per iniziare a creare e condividere un pensiero nella collettività. Mi ero resa conto che alla fine tutto quello che cercavo, come mi aveva insegnato Alik Cavaliere, sulla ricerca di un percorso, di un lavoro artistico, non poteva esaurirsi con il fare delle mostre, lavorando con le gallerie o producendo degli oggetti – che chiamiamo sculture, ma oggettivamente sono dei manufatti: avevo bisogno della collettività, di una comunità di riferimento, avevo bisogno di uscire dagli schemi del mondo dell’arte, che spesso è autoreferenziale –, avevo bisogno di incontrare la gente di tutti i giorni. L’essermi trasferita con mio marito ad Ameno, sulle colline del Lago d’Orta, dove è nato Asilo Bianco, mi ha permesso di iniziare questa scommessa, creando un’associazione culturale e poi cominciando a lavorare con altri artisti, anche letterati, studiosi di cinema, ecc., insomma la cultura nei suoi vari aspetti, per un progetto multidisciplinare: abbiamo cominciato a lavorare sul territorio, con incontri con artisti e persone varie in un posto decentrato. Contro la globalizzazione, la mercificazione occorre anche trovare dei luoghi, anche piccoli, da riscoprire ed iniziare a tessere delle relazioni. Questo con il seme rigenerativo dell’arte, che ritengo sempre il perno di tutto il mio lavoro e di Asilo Bianco. Magicamente si sono innescate delle sinergie incredibili, anche con fondazioni bancarie che hanno dato dei contributi per sistemare alcuni beni storico-artistici pubblici. Quindi Asilo Bianco è stato una leva per aiutare piccoli comuni a costruire progetti per sistemare degli spazi, come Museo Tornielli ad Ameno ma anche, come in questo momento a Miasino, per Villa Nigra. Questi beni sono diventati effettivamente dei gioielli di tutta la comunità del luogo ma anche un’opportunità di microeconomia turistica. Insomma, anche con AsiloBianco si parla del concetto iniziale del nostro incontro, quello del recupero: se tutti noi pensassimo ad una società che abbia in sé dei valori, tra cui anche quello dell’accoglienza, dovremmo partire dalla coscienza di ciò che già abbiamo, che abbiamo ricevuto – cioè il vecchio di cui parlavamo prima – e che possiamo reinventarci. Quindi avere un villaggio che, pur se piccolo – solo 600 abitanti –, ha tantissimi immobili storici che purtroppo sono abbandonati e disabitati, può trasformarsi in un valore sociale da inventare. Insomma, recuperare ‘lo scarto’ di luoghi e attraverso Asilo Bianco dimostrare che questo è possibile. Sono 15 anni che esiste, siamo riusciti a far lavorare dei giovani del territorio, che avevano finito l’università. Qualcuno di loro si è fermato a vivere nel paese. È bello pensare al primo evento, ‘Athena Nera’, nato nel 2005 quando ancora non era iniziato il grande flusso migratorio: abbiamo cercato di intercettare tutti i ragazzi africani che si trovavano nei dintorni del Lago d’Orta e lavoravano in alcune delle tante fabbriche di rubinetterie che ci sono in zona, per capire chi fossero, i loro sogni, le loro tradizioni, i loro bisogni. È risultata una manifestazione importante, non solo in senso culturale-sociale ma anche culinario perché la gente del posto si è trovata a confrontarsi anche con la cucina e i tessuti di alcuni paesi africani appartenenti a persone che condividono la stessa comunità”.
Progetti in cantiere?
“Una pubblicazione tutta dedicata ad Asilo Bianco, anche per restituire l’interessante esperienza vissuta dall’associazione. Condividere con altri questa esperienza sperando di incuriosire e stimolare altre associazioni o enti a prendersi cura di altri luoghi marginali e poterli riattivare attraverso l’arte. Occorre crederci che è possibile, lavorare attraverso l’arte all’interno delle comunità è un’esperienza incredibile, anche se si tratta di un duro lavoro. Vorrei costruire una cooperativa di donne ad AddisAbeba e poter innescare microeconomie tra l’Etiopia e l’Italia, attraverso la produzione di progetti di arte. Mi piacerebbe infine affrontare il problema dello spopolamento delle montagne per recuperare luoghi e valori comunitari nelle zone marginali nel senso più ampio del termine”.