Due affascinanti mostre che ci trasportano in regioni contigue del pensiero si aprono contemporaneamente a New York, una nel quartiere di Brooklyn, l’altra in quello di Manhattan. La prima offre una vastissima selezione delle opere di Maurits Cornelis Escher, il grande incisore olandese operante in uno stile ‘iper-geometrico’ praticamente unico, e che raggiunse fama mondiale solo quasi settantenne, pochi anni prima della morte avvenuta nel 1972; l’altra è la prima esposizione in un grande museo degli Stati Uniti di Mary Corse, artista californiana anche lei, oggi, settantenne, che ha dedicato la sua intera carriera a dare soluzione a una domanda: è possibile servirsi della luce a un tempo stesso come soggetto e come materia d’un’opera d’arte?

Cominciando da questa seconda esposizione, essa è intitolata “Mary Corse, a Survey in Light”(che tradurrei “un’investigazione della luce”) e si apre domani all’ottavo piano del museo Whitney, quello principalmente dedicato all’arte americana e che si affaccia sulla baia newyorkese in un edificio creato recentemente da Renzo Piano. Essa tocca tutti i punti principali di una lunghissima sperimentazione tecnica in cui l’artista si è servita sia di tele sempre monocrome che di strutture tridimensionali per esplorare il gioco reciproco tra la luce, l’oggetto e l’immaginazione. Nei primi anni la luminosità era prodotta soprattutto da vernice acrilica che, quasi sospesa sulla tela, sembrava conferirle una qualità quasi eterea e una leggerezza inaspettata; più tardi aggiunse a questo effetto quello del plexiglas usato non solo come cornice ma come parte dell’oggetto. Un momento speciale fu raggiunto dalla Corse quando scoprì, nel 1968, le microsfere di vetro, che sono quella polvere cristallina aggiunta alla vernice bianca sul fondo strada per riflettere la luce dei veicoli al loro passaggio. Rifrazione e riflessione hanno così articolato fonti diverse di luce esterna in una lunga serie di studi di un vigore espressivo speciale e diverso. Mary Corse, che ha viaggiato in Italia, mi ha detto di aver anche sfruttato in modo particolare le qualità quasi uniche di luce del cielo italiano.

La mostra di Escher, mostra che ha già visitato Roma, Bologna e Milano, Madrid, Lisbona e Singapore, attirando oltre un milione di visitatori, è organizzata dal gruppo Arthemisia di Roma in collaborazione con Mark Veldhuysen, curatore della Fondazione Escher. A Brooklyn si tiene nel padiglione espositivo “Industry City” nel Sunset Park, sull’orlo del mare. Comprende duecento opere, da quelle figurative degli anni ’20 e ’30 alle indagini geometrico-matematiche iniziate negli anni ’50 e fiorite a partire dal decennio successivo nel contesto dell’”arte ottica” (una sottospecie della Pop Art), anche se è rimasta un unicum nelle sue complesse espressioni matematiche, di origine sempre intuitiva. La sua opera forse più nota, che fa parte della mostra, è la litografia “Relatività” del 1953, una composizione che sembra sfidare il nostro senso gravitazionale attraverso un impossibile intrico di scale. “Noi amiamo il caos, ma solo quando sentiamo di potergli dare un ordine”, è uno dei detti di Escher citati più spesso, insieme all’altro: “le cose che io mi sento di esprimere hanno sempre, un fondo di bellezza e di purezza.” Anche Escher ha un debito verso la luce e l’arte d’Italia, che conobbe attraverso innumerevoli viaggi. Tra le ultime creazioni ce n’è una recentemente tradotta per applicazioni Instagram, che porta le illusioni ottiche escheriane a un’inscrutabile realtà.

La mostra di Mary Corse resterà aperta fino al 25 Novembre di quest’anno, quella di Escher fino al 3 febbraio del 2019.