Al freddo artico che a cominciare dal Capodanno avvince l’isoletta di Manhattan si è aggiunta in questi giorni un’altra nota di gelo. È stata emanata dal Metropolitan Museum of Art, quando ha annunciato che a partire dal marzo 2018 il suo biglietto d’ingresso sarà subordinato al pagamento di 25 dollari (una ventina di euro) per chiunque non sia residente nello stato di New York, mentre per i residenti rimarrà uguale a quello che è stato da cinquant’anni in qua, cioè totalmente volontario. È soprattutto questa discriminazione nei confronti dei non residenti che ha scandalizzato la gente, perché sembra ispirata in qualche maniera alla politica anti-immigratoria di stampo ritenuto fascista dell’amministrazione Trump.

Ma varrà poi la pena ai “forestieri” – cioè, in pratica, ai turisti – di spendere tutti quei soldi per un’occhiata all’interno del venerabile museo? Beh, messa così la domanda non può avere che una risposta affermativa. Innanzitutto il prezzo non è superiore a quello richiesto dalla maggior parte degli altri musei americani, inclusi molti di rango assai minore, nonchè da quasi tutti i grandi musei stranieri, dal Louvre agli Uffizi. I reperti esibiti non sono certo inferiori per quantità e qualità a quelli degli altri massimi musei del mondo. A parte le ricchissime collezioni permanenti, da decenni il museo offre da 45 a 60 mostre speciali l’anno, gratuite in sé, e in genere di straordinario interesse. Basta pensare a quelle in corso in questi giorni. Oltre ad alcune di cui ho già parlato, come quella sui disegni di Michelangelo, e limitandomi alle maggiori, ad esempio ci sono: una sensazionale retrospettiva di David Hockney, il pittore inglese che è riuscito a rendere forse più di chiunque altro mai i contrasti cromatici dell’acqua, del cristallo e del semplice vetro; una mostra su Rodin, una su Munch; altre su Sol Levitt, sulla tradizionale pittura naturalistica cinese, su quella asiatica fatta con la giada, sulla giapponese fatta con il bambù, nonché una su Adolf de Meyer, il pittore dell’alta società internazionale fin de siècle che è stato chiamato ‘il Débussy della camera fotografica’. Tra parentesi, tra tutte queste mostre segnalo, come assolutamente eccezionale, la più piccola, cioè quella su de Meyer. Lo faccio perché di questo aristocratico ritrattista, un barone anglo-tedesco gay unito in lungo e felice matrimonio con la nobile lesbica Olga Caracciolo, a sua volta figlia naturale di Edoardo VII, ci si comincia a dimenticare mentre, per resuscitare i tempi di Proust, dei ballets russes e della prima arte astratta per non parlare dell’arrivo di Josephine Baker, non c’è forse nulla di più potente di queste fotografie e relativi cimeli, di cui il Met possiede il più vasto fondo al mondo.

D’altra parte, se connettere in qualche maniera l’arte e la politica immigratoria di Trump suscita in alcuni ululati di ribrezzo, che dire di un’altra proposta atterrata in questi giorni proprio sul mercato dell’arte americano, che a questa politica allude nella maniera più positiva e diretta. Si tratta di riconoscere ufficialmente valore d’arte (concettuale), e di proteggere in base a una legge americana esistente in questa materia, otto diversi pezzi di muro eretti uno accanto all’altro sul confine tra gli Stati Uniti e il Messico, prototipi di quello ideato dalle autorità trumpiane per tener fuori gli immigranti sudamericani illegali. La proposta è stata fatta non da un estremista politico ma da un pittore e critico d’arte svizzero-islandese di nome Christoph Büchel, il quale sostiene che questi monconi di muro, tutti uguali come dimensioni ma diversi per ogni altra caratteristica, sono bellissimi. Büchel si era già segnalato alla Biennale di Venezia del 2015, dove aveva innalzato una moschea all’interno di una chiesa. Uno dei suoi progetti attuali è invece di seppellire un aereo di linea in un deserto americano. La proposta dei muri come arte ha provocato indicibile sdegno, ma non c’è dubbio che Büchel possa avere pienamente ragione: se sono arte l’urinale di Duchamp e il cesso di Maurizio Cattelan, sia pure anzi proprio perché d’oro, non c’è nessun motivo di negare questa qualifica ai muri trumpiani, che a guardarli bene fanno effettivamente colpo, non foss’altro come cattiveria. Anche il massimo filosofo dell’estetica, Benedetto Croce, si sarebbe trovato d’accordo.