Si definisce un “fotografo dall’indole samaritana” che usa la fotografia come mezzo per aiutare i più bisognosi. Per lui non conta solo la tecnica ma la capacità di descrivere l’anima e di parlare al mondo e alle coscienze, scuotendole con la forza delle immagini. Charley Fazio, siciliano nato a Palermo, a un certo punto della sua vita prende una macchina fotografica nelle mani e decide che quello sarebbe stato il suo lavoro, dopo dieci anni trascorsi come geologo per una multinazionale al petrolchimico di Siracusa.
E ci arriva in maniera naturale, senza forzature. Per passione ed hobby ha sempre fotografato i paesaggi dell’Etna per poi passare a quelli dell’umanità. Ma prima studia ed impara la tecnica, continua a fotografare senza fermarsi. A un certo punto si da una scadenza dopo aver lasciato il suo lavoro da geologo: “Vado a Los Angeles se le cose non cambiano entro due anni”. E le cose cambiano. Nel 2008 la foto dal titolo “Life is Beautiful –La vita è bella”, viene selezionata al prestigioso concorso mondiale Sony World Photography Awards, fra più di 25.000 in tutto il mondo giungendo in semifinale insieme ad altre nove per la stessa categoria. Iniziano le varie collaborazioni nel mondo dello spettacolo, le campagne pubblicitarie. È stato anche fotografo di scena per l’attore Gianfranco Jannuzzo, le sue foto sono esposte in Europa, a New York e per due anni consecutivi arriva in semifinale al concorso di National Geographic Italia e l’UNICEF più volte lo seleziona per alcune campagne in Africa centrale e per i suoi reportage che riguardano le migrazioni dei popoli in fuga dalla guerra.
Un giorno mentre guardava un servizio al Tg2 sulla guerra in Siria e sugli sbarchi in Europa, si sente come chiamato in missione. È in quelle terre che vuole andare per raccontare la speranza attraverso il dolore delle persone, dei bambini. Sono tre i viaggi che compie a Kilis, al confine turco-siriano con la collaborazione della Onlus “Speranza- Hope for Children”. In quei viaggi ha incontrato, fotografato, bambini, donne, anziani, ascoltato i loro racconti. Un reportage umanitario che è diventato una bellissima mostra “La bellezza ritrovata”, che ha da poco chiuso i battenti a Voghera mentre sono già in calendario nuove date. Insieme all’esposizione, Charley ha realizzato anche un catalogo fotografico con l’obiettivo di raccogliere fondi e creare un centro di formazione per i bambini a Kilis, grazie all’intervento di Joy for Children, la Onlus che lo stesso Fazio ha fondato insieme ad altri collaboratori. Sono foto nate dagli scatti dell’autore e dalle istantanee che gli stessi bambini hanno realizzato usando una macchina simile alla polaroid. Dove sta la bellezza ritrovata nei luoghi attraversati dal dolore?
“Nei sorrisi dei bambini, nella luce dei loro occhi mentre la speranza siamo noi che dobbiamo restituire la dignità e il diritto alla felicità a questi bambini”. Charley ci racconta il suo rapporto con la fotografia, i suoi progetti futuri, come nasce uno scatto e come questi viaggi a Kilis hanno cambiato la sua vita. “Curiosità per il mondo e per l’umanità, sono gli elementi essenziali per chi fa questo lavoro”. Una fotografia salverà il mondo? “La fotografia rallenterà il suo sfacelo”, dice Charley.

La tua mostra “La bellezza ritrovata” è un progetto molto complesso che intreccia fotografia, reportage, scopi umanitari. Che forma ha la bellezza ritrovata nei luoghi attraversati dal dolore, dai traumi della guerra?
“Quella degli occhi profondi e bellissimi di questi bambini, nella luce che viene fuori dal buio. Nei loro sguardi si vede la bellezza della vita, della speranza e dell’amore. Non ho voluto raccontare il trauma e il dramma della guerra con immagini forti e dure piuttosto con le mie immagini voglio che chi le guarda sia consapevole di quello che sta succedendo in quella parte del mondo. E voglio che gli altri percepiscano il messaggio che questi bambini non sono solo vittime ma sono belli ed è per questo che dobbiamo renderli liberi e felici. La bellezza in questo caso è ritrovata perché è scontato che non ci sia in posti come questi ma quando la percepiamo ci sembra un miracolo.
Le foto sono state realizzate in maniera unica. Alcune sono state scattate da te, altre dagli stessi bambini con una Lomo Instant Wide, simile alla Polaroid di una volta, che tu hai dato loro chiedendogli di fotografare quello che per loro era bello.
“Quando gli ho dato tra le mani la macchina fotografica chiedendo a ciascuno di loro di fotografare quello che di bello li circondasse, tutti erano sorpresi. Stupiti nel vedere per la prima volta questo oggetto e nel vedere le foto che venivano fuori dalla carta quando l’istantanea prendeva forma. Ognuno ha scelto di fotografare la bellezza secondo il loro punto di vista: chi ha scelto di fotografare un albero, chi la stanza degli ospiti, qualcuno l’uscio di casa; ogni foto ha una storia da raccontare e io lascio a chi guarda questi scatti, immaginare le storie. Questo è in fondo il dilemma di ogni fotografo: affiancare le immagini alle parole oppure lasciare che siano gli altri a completare la storia”.

Come hanno reagito i bambini quando hanno visto i loro volti ritratti negli scatti?
“Erano stupiti come dicevo prima ma anche felici. E soprattutto quando hanno visto le foto che li ritraevano hanno trovato la dignità di essere umani. In fondo è questo l’obiettivo della mia mostra: dare dignità a queste persone che hanno perso tutto”.
Qual è stato lo scatto più intenso e quello più difficile?
“’L’uomo in blu’ nasce dal figlio che chiede al padre cieco di poterlo fotografare. Nella stanza non c’era nessuna luce o elemento blu eppure viene fuori una foto in blu a sottolineare l’intensità del buio, della cecità. Lo scatto più difficile è “La pietà” dove la protagonista è questa giovane ragazza che tiene in braccio un bambino che non ha mai smesso di piangere, in una stanza affollata e caotica. Il suo sguardo era fisso, quasi a volermi chiedere aiuto. In quel momento faccio quello che ogni fotografo dovrebbe fare: non invadere lo spazio, non puntare la camera addosso, rispettare la persona e i sentimenti”.
Quando un fotografo così come un giornalista deve fermarsi di fronte a certe circostanze?
“Quando hai la sensazione che con una foto stai come spogliando una persona indifesa, denudando la sua anima. Mi è successo in un piazzale a Lesvos, l’isola greca dove molti rifugiati sono sbarcati e continuano a sbarcare. Un gruppo appartenente alla minoranza yazida non era stato fatto salire sulla nave dal capitano e aspettava sotto la pioggia e al freddo. Mentre molti puntavano le telecamere verso questo gruppo, io ho deciso di non farlo, fotografandoli con molta delicatezza senza puntare la mia macchina fotografica. L’urgenza della cronaca trova sempre un limite nel rispetto della libertà e della dignità degli altri”.
“La bellezza ritrovata”non è solo un reportage ma un progetto di solidarietà e l’inizio della tua avventura con la Onlus che hai da poco fondato “Joy for children”.
“Sono stato più volte a Kilis, al confine turco-siriano, cercando di documentare e di saperne di più sulle migrazioni osservate da un punto di vista umano e non politico. L’idea di una mostra fotografica si è concretizzata con il mio terzo viaggio. Insieme al reportage fotografico abbiamo creato un catologo e un profumo “chicchi di gioia” realizzato con il melograno, tipico della zona siriana, il cui ricavato andrà totalmente in beneficenza per la realizzazione di un centro di formazione che Joy the Children, la mia onlus, darà vita per aiutare questi bambini e le loro famiglie. Insieme al catalogo e al profumo, vendiamo gli scatti dei bambini realizzati con l’instantanea. Si tratta di scatti unici”.
Cosa ti ha insegnato questo viaggio al confine turco-siriano e che messaggio vuoi condividere con chi viene a vedere la tua mostra?
“Ad apprezzare la vita, la bellezza delle piccole cose. A trovare la luce anche nel buio. Quando sono tornato la prima volta da Kilis, non potevo fare niente e stare fermo. Mi sentivo un peso al cuore, l’urgenza di agire e non stare fermo. Fatima, una bambina che ho incontrato più volte nei miei viaggi è diventata una mia amica. MI sento molto legato a questa bambina che mi ha insegnato con I suoi occhi bellissimi a guardare il mondo, a cercare la luce nel buio. Abbiamo il dovere di restituire a questo popolo, a questi bambini la felicità , il diritto all’infanzia che gli è stato negato”.
“Uno scatto per la speranza”, è anche il secondo titolo della tua mostra. Dove sta la speranza in tutto questo?
“La speranza siamo noi. Siamo noi a dover restituire dignità a questo popolo, a questi bambini, ai loro genitori. Sono loro che hanno bisogno di noi perché loro hanno perso tutto ma non hanno perso la dignità. Dobbiamo ricordargli che sono uomini e dobbiamo restituigli la dignità”.
Che ruolo ha la fotografia nella tua vita e nella tua professione?
“È vita, pensiero, respiro. La prima cosa che faccio quando mi sveglio, l’ultima prima di andare a dormire. È esistenza, curiosità, passione, esplorazione, viaggio. La fotografia ha un ruolo importante: deve arrivare e parlare all’anima. È cuore prima che tecnica. Quest’ultima è sicuramente importante ma a volte vedo delle cose bellissime dal punto di vista tecnico che non hanno un’anima.
Sei arrivato però alla fotografia come professione dopo la tua decennale carriera da geologo. Quando hai deciso che era arrivato il momento di cambiare?
“La fotografia è stata sempre una mia grande passione come la musica, la scrittura, la pittura. E’ stata sempre lì ma a un certo punto è venuta fuori in maniera decisiva ma naturale, senza forzature. Sentivo che la mia vita doveva cambiare e io ho colto i segnali di questo cambiamento e ne sono stato artefice piuttosto che aspettare inerte che le cose cambiassero. Ho lasciato il mio lavoro da geologo, mi sono dato due anni di tempo dicendomi che se nulla fosse successo sarei andato a Los Angeles da mio zio. Poi però arriva la selezione al concorso della Sony, le collaborazioni nel mondo dello spettacolo. Comincio a viaggiare, per me la fotografia diventa oltre che passione, missione, vita”.
Dai paesaggi fisici a quelli umani. Come cambia la fotografia?
“L’obiettivo è sempre parlare con l’anima e all’anima. La mia fotografia nasce con i paesaggi dell’Etna, quindi la natura. Una passione, quella per il vulcano, nata anche grazie al mio lavoro da geologo. Fotografare un paesaggio naturale è indispensabile per un fotografo, soprattutto all’inizio. Con il tempo invece la mia grande passione è fotografare l’umanità, le persone, in un contesto specifico. Il paesaggio umano da fotografare ha un potenziale enorme, in grado di comunicare messaggi forti. Tutto è iniziato documentando le migrazioni che hanno fatto seguitoagli sbarchi in Europa. Da lì è nata la voglia di andare oltre e raccontare”.
Per questo ti stai specializzando nel filone dei reportage umanitari?
“Sicuramente è quello che sento più mio, che più mi appartiene per la mia indole da samaritano. Il mio sogno è quello di raccontare il mondo viaggiando, arrivare con la fotografia a scuotere le coscienze, raccontare e aiutare l’umanità, quella più bisognosa. Non fotrografando il dolore, ma come con La bellezza ritrovata, fotografare la luce in una situazione di dramma. A volte una foto drammatica è un pugno allo stomaco forte che ha un effetto immediato ma una foto dolorosa, non violenta, arriva in maniera sottile a dialogare con le coscienze e l’anima”.
Da cosa nasce uno scatto?
“È lui che ti chiama e tu lo senti. Senti l’urgenza, la necessità, il trasporto”.
Hai mai pensato ad una foto di un tuo collega che avresti voluto scattare?
“Mi piace la fotografia di Salgado, di Vivian Maier, di Bresson, di Steve McCurry e Ferdinando Scianna”.
Come vedi il rapporto tra giornalismo e fotografia?
“Complementare. A volte una foto arriva laddove non arriva un testo mentre altre volte un racconto riesce a descrivere laddove le immagini hanno mostrato i loro limiti. Mi piacerebbe moltissimo dedicarmi al fotogiornalismo perché scrivere è un’altra delle mie grandi passioni. Vorrei un giorno poter fotografare le rovine di Aleppo e raccontare questo pezzo di storia attraverso le persone che vivono questa guerra dolorosa e drammatica”.
Fare il fotografo ai tempi di Instagram e del digitale. Non senti che la fotografia oggi sia un pò maltrattata?
“Sicuramente si. La fotografia è in qualche modo sfregiata, abusata. Tutti si sentono legittimati a fotografare in qualità di fotografi. Io non mi sento minacciato dal digitale perché sono sempre convinto che ci sono migliaia di foto ma quelle che vengono apprezzate sono quelle che riescono ad arrivare all’anima”.
Tuo padre è nato a Cleveland, Ohio, e tu hai pensato a un certo punto di andare a vivere a Los Angeles. Viaggi per il mondo ma la tua base è in Sicilia, tra Palermo e Galati Mamertino, nel cuore dei Nebrodi siciliani. Che rapporto hai con la tua Isola e con gli altri luoghi del mondo che hai attraversato?
“La Sicilia è la mia terra e come ogni siciliano ho avuto sempre un rapporto di amore e odio. Poi mi sono innamorato nuovamente della Sicilia e ho scoperto che appartengo a quei luoghi, a quelle persone, all’aria che si respira nell’isola. Ne ho preso coscienza a Milano, città dove ho vissuto per qualche periodo e che ho amato. L’America era nei miei progetti e adoro New York. Non c’è un posto dove vivrei unicamente per dodici mesi l’anno perché voglio viaggiare e visitare posti diversi. Il mio ritorno, la mia casa è in Sicilia. Nel mio mare. Quando mi immergo nelle acque di Capo D’Orlando, in provincia di Messina, penso che è quello il mio mondo: sott’acqua”.
Geologo e poi fotografo. Se non fossi diventato un fotografo cosa avresti fatto?
“L’insegnante e insegnare agli altri come guardare il mondo attraverso la fotografia”.
La fotografia può salvare il mondo?
“La fotografia rallenterà il suo sfacelo”.