C’è da augurarsi che qualcuno scriva presto una biografia di Ettore Sottsass, perché sono pochi gli artisti in cui la vita si riflette tanto minutamente, anzi deliberatamente, sull’opera. La vita che nel suo caso significa i tempi in cui si trovò a militare tra le forze della “Repubblica sociale” mussoliniano-hitleriana e quelli in cui languiva in un campo di concentramento jugoslavo. Vennero poi quelli in cui fu l’astro della ditta Olivetti a Ivrea come direttore artistico fino ai suoi soggiorni in America nel cruciale periodo di formazione della Pop Art, e in India dove andò a meditare sulle ragioni profonde dell’esistenza. ‘Perché siamo perseguitati sul nostro pianeta in continuazione da un mistero, cosa di cui molti non vogliono rendersi conto”, come scrisse lui stesso.
Un contributo sostanziale alla comprensione di questo enigmatico personaggio in base alla sua vastissima opera di architetto e di artista viene dato adesso da una vasta mostra retrospettiva monografica che si apre il 21 luglio al Met Breuer, cioè in quello splendido edificio creato al centro di Manhattan da un altro grande architetto quasi contemporaneo di Sottsass, Marcel Breuer, e di cui il gigantesco Metropolitan Museum si serve come dépendance per l’arte moderna. La mostra, intitolata “Ettore Sottsass: Design Radical” – perché evidentemente mette l’accento sulla parte più rivoluzionaria del disegno di Sottsass, una produzione tanto multiforme e su scala tanto variabile da andare dall’aeroporto della Malpensa di Milano a minuscoli gioielli di materia plastica – ha luogo in quello che è contemporaneamente il centenario della nascita e il decennale della morte di Sottsass. In quattro fogli illustrati che sono una specie di curriculum vitae e memoriale metafisico compilato all’epoca della sua venuta in America nel 1956, Sottsass comincia orgogliosamente con tre parole: “Sono un italiano”, tanto per tacitare le perplessità talora suscitate dal suo cognome. Nacque in effetti nel trentino ancora per un anno austriaco, da madre viennese ma da padre italiano, anche lui architetto, anzi grande architetto; poi tutta la famiglia si trasferì a Torino dove Ettore fu messo a studiare al politecnico.
Nell’immediato dopoguerra vennero prima le grandi affermazioni di Sottsass come designer – innanzitutto i computer e la macchina da scrivere Valentine – alla Olivetti; poi quelle di architetto e designer a Milano. Fare una sintesi del centinaio di multiformi oggetti e disegni di ogni dimensione esposti su un intero piano del museo è virtualmente impossibile, ma il compito è semplificato quando si scopre che il ‘design’ di ogni oggetto creato da Sottsass, qualunque ne sia l’uso pratico a cui è destinato e il materiale in cui è realizzato, è sempre considerato da Sottsass una ‘architettura’ e sempre, attraverso di essa, un ‘gesto biografico’. Ciò anche se gli oggetti debbono in ogni caso servire alla vita di ogni giorno.
La più caratteristica espressione di questa identità architettonico-biografica è fornita dalle sue “Superboxes”, che sono armadi di ogni dimensione, materiale e colore, dal legno al ferro e al laminato plastico, di cui il proprietario si dovrebbe servire per imprigionare al tempo stesso i propri beni e la propria identità umana. L’ideale sarebbe raggiunto quando, in gesto di massima efficienza minimalista, la “Superscatola” fosse impiegata per contenere tutto ciò che un singolo individuo possiede e di cui ha bisogno per vivere.
La “Superbox”, immaginata e costruita da Sottsass fin dal tempo in cui, all’inizio degli anni sessanta, lavorava per l’officina che a Torino fu chiamata ‘Poltronova’ (poltrone, sedie e ogni altro mobile ‘nuovi’, di una novità sempre radicale, come sottolinea adesso il titolo di questa mostra americana), finiva per avere addirittura un significato totemico, religioso; si suggeriva che venisse tenuta scostata dal muro, come una specie di altare, per poter essere vista e apprezzata abitualmente come ausilio al vivere. Il disegno ha in genere qualche aspetto arditamente concettuale, ma non sempre; a volte è una semplice espressione di calma, magari una riflessione sulla condizione umana.
Era il tempo in cui, in America ma anche in Italia, si rifletteva con allarmato senso critico sulle conseguenze del ‘consumismo’, e sulla possibilità di creare degli antidoti. “Si tratta – scrisse per esempio Sottsass – di fabbricare strumenti che rallentino il consumo stesso dell’esistenza … che raffrenino la solitudine e la disperazione”. Ci fu poi rispetto alla produzione industriale l’ambivalenza espressa dalla Pop Art, e che anche Sottsass rispecchia in semplici forme tramandate dal passato: per esempio, due soli rocchi di colonna di epoca antico-romana sovrapposti. Stanno accanto a una delle strane e magnifiche finestre trapezoidali del Met-Breuer, e sotto corre il traffico intenso della Madison Avenue.