Mentre a Roma sono sono stati esposti i documenti originali del 1957 al Ministero degli Esteri, all’Istituto di Cultura Italiana a New York il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma è stato celebrato con una mostra d’arte, dal titolo European Art at the Time of the Treaties of Rome.
La firma dei Trattati di Roma, avvenuta a Roma nella Sala degli Orazi e dei Curiazi del Palazzo dei Conservatori il 25 marzo 1957, rappresenta il primo atto fondativo dell’Unione Europea, all’epoca CEE, Comunità Economica Europea. “Il giorno esatto della firma dei Trattati è il 25 marzo, ma abbiamo deciso di ricodarla oggi, perché il 9 maggio è il giorno dell’Europa, per celebrare l’Europa due volte”, ci ha detto Fabio Troisi, l’attaché for Cultural Affairs dell’Istituto che ha organizzato e coordinato la mostra. “La mostra vuole essere storica, ma allo stesso tempo rappresenta il dialogo artistico che va al di là della politica. Il percorso di integrazione europea dopo la Seconda Guerra Mondiale, infatti, non è stato un percorso soltanto politico, ma prima di tutto culturale e artistico. Abbiamo voluto rappresentare questo aspetto insieme ai sei Paesi fondatori dell’Unione Europea, ognuno dei quali è rappresentato da due artisti con due opere.”
“Questa mostra – ci spiega Fabio Troisi – è un unicum al momento e abbiamo deciso di organizzarla qui a New York nell’Istituto Italiano di Cultura simbolicamente, visto che l’Italia ha ospitato il primo atto della costituzione dell’Europa unita. Ieri c’è stato il pre-opening della mostra con la vice-presidente della Commissione Europea Federica Mogherini e con il Segretario delle Nazioni Unite António Guterres, che hanno ricordato l’importanza dell’Italia nella costituzione dell’Unione Europea sia come paese fondatore che come luogo simbolico della firma dei Trattati. Con questa mostra, infatti, vogliamo celebrare visivamente la firma dei Trattati di Roma e speriamo che sia un buon auspicio per il futuro”.

La mostra, aperta al pubblico fino al 12 giugno 2017, è stata organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura di New York, con la collaborazione delle istituzioni dei sei paesi europei formatari dei Trattati, grazie ai quali l’Istituto ha raccolto 12 opere provenienti da Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda.
“Le opere – ci ha detto Fabio Troisi – coprono un periodo che va dal 1951 al 1962, gli anni che hanno preceduto e seguito il 1957, per mettere in luce le tendenze artistiche di quegli anni, cui il sottotitolo della mostra fa riferimento: Informel, Abstraction, Zero, around 1957″.
Il 1957, perciò, è un anno simbolico per l’Europa, sia per la sua primordiale unione come organizzazione sovranazionale, democratica e integrata, sia perché fa da spartiacque tra i movimenti artistici del tempo, che stavano andando nella stessa direzione unitaria della politica, anticipandola.

Infatti, aggiunge Troisi: “Gli artisti viaggiavano dopo la guerra. Era un periodo di ricostruzione dell’Europa, anche attraverso il dialogo tra artisti. Alcuni lo facevano programmaticamente come il gruppo Zero, in mostra qui, che era in comunicazione con Amsterdam, Milano, Parigi. Questi scambi avvenivano prima del concetto di Europa e hanno anticipato i Trattati, assecondando la stessa spinta di superamento dei conflitti che ha portato i Paesi europei a unirsi. La guerra ha avuto delle ricadute nell’arte e nel modo in cui gli artisti si esprimevano nelle loro opere. In loro c’è stata una forte consapevolezza di unione dopo la guerra. Nel gruppo Zero, per esempio, questa missione è chiara ed esplicita: loro volevano creare un mondo nuovo, che superasse la distruzione della guerra. Erano proiettati al futuro, anche usando materiali nuovi come il metallo, i colori freddi, il minimalismo, il design, per creare un linguaggio universale, che poi sarebbe diventato lo stile degli anni ’60”.

“Quando mi è stato chiesto un progetto di mostra sui 60 anni dei Trattati di Roma sono partito semplicemente dalla data, il 1957. In quell’anno succedono molte cose nel mondo dell’arte europeo e soprattutto è un momento in cui si capisce molto bene che i sei Paesi europei firmatari dei Trattati erano già da molto tempo uniti nell’arte. Perché gli artisti si parlano, indipendentemente dai confini geografici o dalle guerre” ci ha detto Francesco Guzzetti, il giovane curatore della mostra, ricercatore alla Normale di Pisa in Storia dell’Arte Moderna e Contemporanea ed ex borsista al CIMA di New York.
La mostra si sviluppa su due piani: al piano terra sono esposti sei quadri della corrente Informale, con opere di Jean Dubuffet (Francia), Franz Kinnen (Lussemburgo), Théo Kerg (Lussemburgo), Roger Raveel (Belgio), Louis Van Lint (Belgio), Karel Appel (Olanda). Al piano superiore, invece, sono esposti i quadri degli anni successivi, con opere di Carla Accardi (Italia), Otto Piene (Germania), Heinz Mack (Germania), Yves Klein (Francia), Lucio Fontana (Italia), Henk Peters (Olanda).

“La corrente artistica dell’Informale, in mostra al piano terra della mostra, si è diffusa dopo la Seconda Guerra Mondiale e dopo il ‘57 è arrivata al suo apice ed è stato il riferimento artistico per tutti i paesi europei. Sempre nel ‘57 ci sono state molte mostre d’arte importanti che radunano questi artisti e due giovanissimi artisti tedeschi, Heinz Mack e Otto Piene hanno fondato il collettivo artistico Zero, che, come dice il nome, è il superamento dell’Informale e la concezione dell’arte che c’era all’epoca, cioè la trasposizione delle emozioni dell’artista”, ci ha spiegato Francesco Guzzetti.
Le correnti in mostra, perciò sono due, a cavallo dell’anno 1957: l’Informale e Zero, due movimenti artistici diversi, il primo animato da artisti adulti che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale e il secondo creato da artisti giovani che a mala pena ricordano gli anni della guerra e vogliono voltare pagina, ripartendo, appunto, da zero. Abbiamo chiesto al curatore della mostra di farci una lezione di arte contemporanea, per capire la scelta delle due correnti in mostra all’Istituto.

“L’idea che l’opera sia il referto delle emozioni dell’artista era tipica del movimento Informale. Ma negli anni a cavallo del ’60 c’era l’avvio del boom economico e il superamento del trauma della guerra, perciò le cose stavano cambiando. Non è un caso che il collettivo Zero nasca in Germania, spinto dall’esigenza di far tornare l’arte alla sua forma di espressione universale, una volta superato il trauma della guerra. Per Zero l’arte doveva essere in grado di parlare a chiunque, indipendentemente dalle emozioni individuali, guardando alle nuove frontiere della scienza e della tecnica. Tra gli artisti in mostra c’è Fontana, che è stato il grande maestro per tutti questi artisti giovani e c’è un’artista italiana che è l’artista che ho voluto di più in mostra, Carla Accardi. La cosa interessante è che una vicenda artistica culmina e si avvia al tramonto nel ‘57, l’Informale, e l’altra nasce nello stesso anno, il collettivo Zero.”

“Dal punto di vista artistico, abbiamo l’Informale, che è un’arte profondamente radicata nella realtà, in cui lo sforzo dell’artista è innalzare la realtà nell’arte, trovando un punto di incontro tra realtà e astrazione nell’opera. Tutte queste opere nascono sulla base di stati d’animo, situazioni personali o generazionali, la guerra per esempio, ma la forma finale è molto astratta. L’idea è di trasfigurare la realtà: si vede bene in Raveel, che parte da un paesaggio di cipressi e ci inserisce dei motivi spaziali a scacchiera che sono astratti. Théo Kerg parte dalle vele del porto e le fa diventare un ritmo compositivo, Appel crea un profilo di volto umano con degli scossoni di pittura materica, Dubuffet ha un tavolo che prende quasi fuoco, fatto di una pittura materica che sembra fango, Van Lint dipinge il suolo, il limo, il fango, Kinnen invece è un astratto puro”.

“Nell’altra sala, invece, c’è il superamento dell’Informale, non si vede la pennellata dell’artista, non c’è la traccia della sua mano, ci sono materiali estranei alla tela. Carla Accardi dipinge in caseina su tela, per esempio, perché vuole ottenere una stesura piatta, con dei segni. Mack ha un foglio d’argento su una superficie di alluminio, Peeters lavora con i fili, non c’è pittura. Per raggiungere un piano di oggettività, le opere non dichiarano in maniera esplicita l’interiorità dell’artista, ma dichiarano l’attenzione dell’artista verso ciò che sta cambiando. L’artista guarda dall’alto anche se stesso e la storia del suo tempo, nel superamento dell’interiorità intesa come elemento fondante dell’opera. Per loro la guerra ha dimostrato che quello che le avanguardie esaltavano, cioè la capacità di ricostruire il mondo, può essere usata per distruggerlo, quindi quel tipo di lessico è poco affidabile, e per questo bisogna ripartire fisicamente da Zero. Mack usa la luce pura, Fontana isola il tema dello spazio, la Accardi guarda al segno, Klein usa le modelle come tramite sulla tela quasi a non voler toccare il quadro, Peeters si concentra sugli effetti ottici della luce e Piene usa il colore puro e la forma astratta”.