I porti, di mare o di fiume, sono luoghi di duro lavoro e d’incessante andirivieni, ma anche scena di momenti struggenti, di addii, di esilii, di ritorni. Non c’è da stupirsi se un uomo sensibile e turbolento come Joseph M. W. Turner ne sia stato affascinato e vi abbia dedicato una parte importante della sua vita di artista, e se oggi un museo intelligente come la Frick Collection offra una mostra interamente dedicata a questo tema: Turner’s modern and ancient ports: passages through time.
Caso mai viene da chiedersi come mai solamente due grandi pittori, lui e, due secoli prima di lui, Claude Lorrain detto il Lorenese, siano stati avvinti dalla intensità sentimentale dei porti. Nel caso di Turner c’è anche una ragione storica. Le guerre napoleoniche che avevano interferito in buona parte dei viaggi in Europa e avevano totalmente bloccato il passaggio tra il continente e l’Inghilterra erano finite da poco, permettendo dopo quasi vent’anni di immobilità la ripresa dei traffici commerciali e turistici. Ecco allora che Turner (1775-1851), a partire dal settembre 1824, si lancia in una serie di peripli portuali prima della Cornovaglia poi, traversata la Manica, della Francia, della Germania e tutto attorno il Continente, poi nell’interno, da Grenoble e dall’alto Reno serrato tra le montagne, fino a Roma; per riempire ovunque volumi di abbozzi e appunti che di ritorno in patria svilupperà nel suo studio, in splendide tele e dozzine di acquerelli.
La mostra, in corso fino al 14 maggio e allestita da Susan Grace Galassi, senior curator della Frick Collection, in collaborazione con uno dei massimi esperti turneriani viventi, Ian Warrell, consiste di tre grandi tele, due rappresentanti i porti di Brest e di Dieppe di proprietà della stessa Frick, la terza di Colonia sul Reno di proprietà della Tate Gallery di Londra; sette tele minori (ma solo come dimensioni) di varia provenienza e una ventina di acquerelli e alcune stampe a mezzotinta. Le tele minori ne includono due rappresentanti i porti fluviali del Tevere a Roma, dove Turner inscena due soggetti classici: Attilio Regolo costretto dai cartaginesi ad accecarsi con la luce del sole e Lo sbarco di Agrippina con le ceneri di Germanico. La prima delle due, con un vorticoso, immenso cono di luce smagliante tra una riva e l’altra, era la deliberata risposta di Turner ai critici che quando le tele di Dieppe e di Brest erano state esposte alla Royal Academy le avevano trovate di una luminosità eccessiva. Altri osservatori però, tra cui Ruskin, ne erano rimasti affascinati, comprendendo lo spirito rivoluzionario di opere che combinando osservazione e immaginazione in un rapporto del tutto nuovo, avrebbero anticipato di molti decenni la pittura astratta.
Un’altra delle tele, incompiuta, proveniente dalla Tate Collection di Londra ha fornito preziosi indizi sulla tecnica di Turner, consistente in aree di colore a olio molto diluito, in toni di blu, arancione, ocra e giallo – i pigmenti in chiave più alta erano stati solo da poco resi disponibili dai fabbricanti – applicate su uno sfondo assorbente di biacca, e in cui generalmente piccole figure sono sovrapposte in un modellato di luce e ombra.
Chi ha visto la straordinaria produzione cinematografica internazionale del 2014 Mr. Turner, che un critico americano ha definito, giustamente a mio parere, “il miglior film che sia stato mai fatto sulla biografia di un pittore”, ricorderà forse l’episodio – che ritengo autentico – in cui il pittore si fa legare alla punta della prua di un battello che va su un mare molto mosso, per studiare con immediatezza assoluta gli effetti di luce. Forse penso che solo in questo modo, con questo coraggio, con questa umiltà di spirito di fronte alla natura, Turner abbia potuto realizzare le opere vere e vive che ci commuovono oggi in una mostra come questa.
Voglio tuttavia menzionarne anche un’altra, che a mio parere distanzia queste due dalla dozzina che io ho potuto vedere a New York tra le centinaia (non esagero), di mostre offerte in questo momento da gallerie individuali o riunite nei padiglioni di due diverse “fiere dell’arte”. Quest’altra, intitolata Seurat’s circus sideshow (cioè: l’avanspettacolo del circo) è in corso al Metropolitan Museum e prende spunto dal capolavoro pointilliste di questo titolo (proprietà dello stesso Met) per illustrare la tradizione dei saltimbanchi che attiravano i passanti davanti ai circhi al loro arrivo. E’ la rievocazione di un’epoca che dalle periferie cittadine, quelle italiane non meno di quelle francesi, echeggiava ancora ai tempi di Fellini nel suo documentario I Clown e nel suo immortale film La Strada. La mostra è in corso fino al 29 maggio.