Era l’autunno del 1950 e il sessantaseienne pittore tedesco Max Beckmann, recentemente immigrato negli Stati Uniti, stava per attraversare il Central Park di New York per andare a vedere un sua opera esposta in una mostra collettiva d’arte moderna tedesca nel Metropolitan Museum quando fu stroncato sul marciapiede da un colpo apoplettico. Adesso, altri sessantasei anni dopo questo avvenimento, lo stesso museo Metropolitan onora questa specie di doppia ricorrenza con la prima grande mostra personale dedicata a Beckman. Cioè dedicata a quello che si rivela non solo un artista prossimo al genio, ma anche uno dei pochi, tedeschi e non tedeschi, che abbiano avuto la forza, la visione e il coraggio per denunciare nei lavori di tutta la loro vita uno dei periodi storici più vergognosi trascorsi dal mondo civile; e addirittura un profeta. Come profetica potrebbe infine rivelarsi questa mostra anche rispetto al momento in cui avviene, ossia durante la più sconcertante per non dire grottesca stagione elettorale nella storia moderna degli Stati Uniti.

Modestamente intitolata Max Beckmann in New York, contiene i 14 quadri dipinti da Beckman nei due anni trascorsi a New York ma anche altri 25 relativi al periodo 1923-1948 dipinti dall’artista in Europa. Raccolti questi ultimi dalla special curator per l’arte moderna tedesca del museo, Sabine Rewald, tra collezionisti e musei di ogni parte del mondo, essi danno alla mostra un valore panoramico rispetto all’intera opera del pittore e ne dimostrano le qualità eccezionali. Spiccano gli autoritratti, che Beckman aveva cominciato a fare quando aveva undici anni; la mostra ne ha otto, e forse nove se è un autoritratto l’ultimo, del 1950, appartenente alla National Gallery di Washington: esso mostra un uomo nudo, visto di schiena, disteso in caduta mortale tra i grattacieli. Ma neanche gli altri, relativi a tutti i periodi della sua vita, sono autoritratti normali: essi mostrano in uno stile angoloso e un vibrante cromatismo agrodolce un uomo duro, glaciale, impassibile, elegantissimo, alcuni dalla bocca stretta in un mezzo sorriso enigmatico che è quasi una smorfia, mentre alza una mano con le dita distese tra cui sempre brucia una sigaretta, come per fermare, giudicare, scansare.
Altri quadri sono un riferimento specifico ad avvenimenti che, ripresi da un punto focale prospettico curiosamente elevato, afferrano chi guarda e lo costringono a partecipare: tra di essi, il trittico Departure (La partenza), di proprietà del MoMA, rappresentante orrende torture e cadaveri distorti, e nel pannello centrale la partenza via mare di flemmatiche maschere umane, del 1932-’33, dipinto cioè nel momento in cui stava per trionfare in Germania il nazionalsocialismo hitleriano, e qualche anno prima che tutte le opere di Bechmann venissero confiscate dal governo nazista per essere poi offerte alla derisione del pubblico nella mostra sull’”arte degenerata” tedesca.

A questi avvenimenti fece seguito l’esilio del pittore prima in Olanda, poi oltremare, esilio cui non fece mai più seguito il ritorno di Bechmann in Germania, nonostante offerte di ben remunerati posti in università e scuole d’arte tedesche. Un altro quadro tipico dell’arte di Bechmann ante-esilio, cioè nella Germania della repubblica di Weimar e nel periodo di relativa calma seguito alla stabilizzazione del marco nel 1923, quando Bechman aveva preso per la seconda volta moglie e aveva appena finito il suo viaggio di nozze in Italia, è dedicato alla scena italiana dopo l’avvento del fascismo. Intitolato Galleria Umberto, evidente riferimento a uno dei più animati punti turistici napoletani, il dipinto è del 1925, cioè eseguito immediatamente dopo il rientro in Germania. Esso mostra sotto la volta vetrata di una galleria una scena orgiastica che è un misto di trombe che squillano, gente che grida o ride o fa sberleffi mentre altra fugge al prodursi sul pavimento di un incongruo vortice marino, o rimane afferrata a giganteschi pesci, o affoga implorando; insieme ad essa, è risucchiata in mare una bandiera italiana. Ma dall’alto penzola, appeso di sotto in sù per i piedi, nudo, mutilato un corpo umano. Mancano esattamente vent’anni, si potrà osservare, alla fine di un’epoca di orrori e lagrime, coronata da episodi come quello di piazza Loreto.
Molti degli altri quadri di Bechmann sono scene di gruppo eseguite in Germania, in Olanda o negli Stati Uniti e che accennano ad altri inferni pubblici o privati dominanti all’epoca nella vita del pittore. Ma ci sono anche altri quadri, nello stile che fu definito “espressionismo faux-naïf” che corrispondono in modo semplice ma altrettanto struggente agli stati d’animo del pittore nei momenti più calmi; come il malinconico Variété rappresentante una scena di circo parigina, del 1927, o l’ineffabile ritratto della Vecchia Attrice che scruta nel nulla, eseguito nel 1926. I traumi più orrendi sono ancora da venire.
La mostra Max Beckmann in New York è aperta fino al 20 febbraio 2017.