Il 9 Ottobre, contemporaneamente all’inaugurazione della mostra su Giorgio Morandi presso il Center for Italian Modern Art, è stata inaugurata la retrospettiva Alberto Burri: The trauma of painting al Solomon R. Guggenheim Museum. La mostra è la prima – e la più grande – retrospettiva americana dedicata ad Alberto Burri in quasi 40 anni.
Curata da Emily Braun, illustre professore di storia dell’arte presso l’Hunter College e The Graduate Center e membro del comitato consultivo del CIMA, l’esposizione mostra un generoso numero di opere che abbracciano l’intera carriera di Burri, ristabilendo così la sua posizione chiave nella storia dell’arte del dopoguerra. Come si evince chiaramente dalla mostra e come esplicitamente sostenuto nel catalogo, Burri risponde alle ferite psicologiche e fisiche della Seconda guerra mondiale in un modo radicalmente unico e significativo. Distanziandosi sia dalla astrazione gestuale e lirica dell’Informale (l’equivalente europeo dell’espressionismo astratto) e il materialismo dell’Art Brut, Burri ripropone i traumi di guerra sul “corpo” del dipinto in un estremo tentativo di auto-salvataggio. Approcciati di persona, i suoi dipinti-sculture al contempo repellono e invitano. Rifiutando ogni concettualizzazione, le opere di Burri mettono i loro materiali, i colori e i processi in primo piano, presentando allo spettatore reali “stimoli emotivamente competenti”, in ultimo appellandosi ad una percezione tattile piuttosto che visiva.
La mostra presenta più di 100 opere realizzate tra gli anni ’40 e i tardi anni ’80. Raggruppata per serie e organizzata in ordine pressoché cronologico, l’opera artistica di Burri si snoda lungo le rampe dell’edificio di Frank Lloyd Wright. Le opere del primo periodo, di dimensioni più piccole ed eterogenee in termini di materiali e procedure, occupano i livelli più bassi della spirale. Tra il 1948 e il 1952 ca., Burri crea i Catrami, concrezioni di catrame con diversi livelli di nero; le intime Muffe, quasi paragonabili a un’invasione batterica su croste di materiale inerte; e gli scultorei Gobbi. Nel 1950 l’artista produce il suo primo Sacco da sacchi di tela smessi, muovendo verso l’utilizzo di un unico materiale, lavorato fronte e retro.
Salendo lungo la spirale, le opere diventano sempre più ampie. Nella seconda metà degli anni ’50, quando l’Italia entra nella stagione del boom economico, Burri inizia a utilizzare materiali da costruzione e industria, producendo i Legni, impiallacciature di legno bruciato; gli imponenti Ferri, con superfici più o meno sporgenti; e le Combustioni Plastiche, fatte di PVC bruciato alla fiamma ossidrica, colorato o trasparente. Nella parte superiore della spirale gli ultimi dipinti, i Cretti e i Celotex, sono ampi, eleganti, e calcolati.
Le opere in mostra sono incorniciate da due proiezioni video. Nella rotonda è proiettato un film documentario degli anni ‘40 che mostra le macerie delle città italiane bombardate, mentre in cima alla spirale è proiettato un film commissionato dal Guggenheim alla regista olandese Petra Nordkamp. Il film documenta il Grande Cretto, 1985-1989, un imponente memoriale progettato da Burri per onorare la città di Ghibellina in Sicilia, devastata da un terremoto nel 1968.
Ogni serie di quadri prende il nome dai materiali a dir poco eterodossi che Burri ha utilizzato, spingendoli ai loro limiti fisici attraverso operazioni come cuciture, bruciature, e sutura. Nonostante la ricchezza semiotica delle opere, i titoli tautologici esprimono il rifiuto dell’artista di associare la sua produzione con qualsiasi riferimento esterno. Come lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan aveva intuito già nei primi anni 1950, i quadri di Burri funzionano come “trompe-l’oeil invertito, in cui non è il dipinto ad imitare la realtà, ma la realtà che imita il dipinto”. Partendo da questa e altre interpretazioni, il saggio di Emily Braun in catalogo si conclude con una convincente analogia tra l’irriducibile “realismo materiale” di Burri e il Neorealismo del cinema Italiano. Come un neorealista combina materiale documentario reale e fittizio per raggiungere il massimo di naturalismo, i quadri di Burri utilizzano la loro pienezza visiva per rappresentare carenza materiale. In ultima analisi, Burri ha inflitto un autentico trauma sul corpo della pittura, al fine di mantenerla in vita.
Nato nel 1915 a Città di Castello, Umbria, Burri crebbe a contatto con l’arte e la storia della sua regione, dal maestro quattrocentesco Piero della Francesca a San Francesco d’Assisi, patrono dei poveri. Fervente fascista negli anni giovanili, nel 1935 Burri interruppe gli studi medici per arruolarsi volontario come medico da campo nella guerra in Etiopia. Nel 1940 Burri si laureò in medicina e chirurgia. Combatté in Jugoslavia l’anno successivo, dopo di che chiese di essere trasferito nel corpo medico.
Mentre di servizio in Tunisia, Burri venne fatto prigioniero dagli inglesi e trascorse dal 1943 al 1946 in cattività in un campo di internamento americano per prigionieri di guerra italiani a Hereford, Texas. Rimpatriato nel 1948, Burri abbandonò la professione medica per dedicarsi all’arte. Autodidatta, nel 1948 Burri viaggiò a Parigi dove osservò artisti come Mirò, Dubuffet e Fautrier, la cui pratica desublima la materia pittorica. Tornato in Italia nel 1949, l’artista si stabilì a Roma dove strinse amicizia con artisti e galleristi, senza tuttavia mai associarsi ad uno dei tanti movimenti artistici impegnati del periodo. Da allora in poi Burri si pose l’obiettivo di rinnovare la tradizione della pittura, utilizzando materiali non tradizionali e spingendoli ai loro limiti fisici estremi.
La mostra ci ricorda inoltre il collegamento biografico di Burri con gli Stati Uniti: divenne artista mentre internato in Texas; espose in gallerie e musei americani fin dall’inizio della sua carriera; sua moglie, la ballerina e coreografa Minsa Craig, era americana e con lei trascorse molti inverni a Los Angeles.
Inoltre, la mostra rinnova il rapporto di lunga data tra l’artista e il museo Solomon R. Guggenheim. Burri e James Johnson Sweeney, primo direttore del Guggenheim, si incontrarono casualmente a Roma nel 1953. Da allora Sweeney rimase uno dei più instancabili sostenitori di Burri. Incluse uno dei Sacchi nella mostra Younger European Painters in quello stesso anno, scrisse la prima monografia inglese sull’artista nel 1955, e presentò uno dei Legni di Burri nello spettacolo inaugurale della costruzione di Frank Lloyd Wright nel 1957. Il museo ha poi continuato ad acquisire opere di Burri, oltre ad ospitare l’ultima mostra monografica dell’artista nel 1979. Un momento saliente della mostra in corso è l’incontro con le sedici miniature che Burri fece per Sweeney come regali di Natale, dove ogni quadretto riproduce in scala una delle sue opere da ciascuna delle diverse serie prodotte.
A cavallo tra sutura chirurgica e haute-couture, la generosa e impeccabilmente presentata retrospettiva dell’opera radicale di Burri è un must-see di questa stagione artistica newyorchese.
*Matilde Guidelli-Guidi è una dei fellow di questo semestre al CIMA.
Questo articolo viene pubblicato, nella sua versione inglese, anche sul blog del Center for Italian Modern Art.