Se avete un interesse concreto e reale legato alla cultura italiana negli Stati Uniti, certamente la Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University è un punto di passaggio obbligato. Cento eventi all’anno, molti dei quali legati alla cultura cinematografica locale e internazionale, con focus che spaziano dagli autori contemporanei fino alle rassegne storiche in ambito di produzione filmica e storico-sociale.
L’ultimo appuntamento, in ordine di tempo, proposto dalla Casa Italiana NYU è un documentario, o meglio un approfondimento auto-prodotto dal titolo Before Neorealism: Italy’s forgotten Cinema, ovvero il cinema italiano prima del Neorealismo, altresì indicato come il lasso temporale durante la Seconda guerra mondiale in cui sono stati girati numerosissimi film di matrice fascista. Naturalmente parliamo di guerra e siamo in piena epoca militante, impossibile non sottolineare l’influenza evidente che il regime ha avuto sui copioni elaborati dagli autori di quel delicato momento storico.
Il documentario diretto da David Lee Morea e prodotto da Alberto Zambenedetti e Vito Zagarrio vuole essere un excursus conciso ed essenziale in lingua inglese (dedicato prettamente ad un pubblico americano) sul periodo del pre-Neorealismo, attraverso il racconto per immagini, documenti d’archivio, clip e spezzoni dei film più importanti di un’epoca in cui l’industria dell’intrattenimento è stata manipolata dal contesto politico contemporaneo. Il tutto alternato con interviste, commenti e dichiarazioni dei docenti della stessa Casa Italiana, tra cui il suo direttore Albertini, che abbiamo intervistato in occasione della della presentazione del documentario.
Il primo screening di Before Neorealism mostrato l’interesse e la curiosità del pubblico sulle sorti storico-politiche del Paese, essendo il documentario la risposta diretta ad una necessità non solo narrativa, quanto propriamente ideologica di almeno un decennio tutt’oggi censurato dai ricordi dei principali sceneggiatori italiani. Secondo Albertini, che ha citato Salvatores, “confrontarsi col cinema italiano è ancora davvero complicato, considerando il peso culturale di una madre (la commedia all’italiana) e un padre (il Neorealismo) così ingombranti nel nostro passato”. In pochi però, ha detto Albertini spiegando le ragioni che hanno portato la Casa Italiana a decidere di presentare il documentario, “conoscono ‘i nonni’ della settima arte in Italia”. Resta nascosto all’ombra delle glorie che seguirono, infatti, ciò che c’è stato durante il lungo periodo di isolamento culturale, un attimo prima che il Neorealismo decidesse di piantare la camera nel bel mezzo della realtà, portando al cinema il racconto del vero.
“Sebbene lo spettatore in Italia non diede credito al nuovo movimento – ha proseguito il direttore della Casa Italiana – spaventato dall’idea di rivedere in sala la realtà deprimente che lo circondava, gli Stati Uniti premiarono i nostri registi, innalzando film come Roma città aperta di Rossellini a capolavori di stampo internazionale”. Albertini spiega questo interesse anche attraverso il coinvolgimento diretto degli americani nella liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo: “dava al pubblico americano il senso preciso del motivo per cui avevano combattuto e sofferto in terra straniera, uno scopo reale-visivo del sacrificio a cui erano andati incontro”. All’epoca questa ragione, per un popolo tanto orgoglioso della propria patria, fu un motivo più che sufficiente per rendere omaggio alla grandezza del cinema italiano.
Un omaggio che sembra non essersi esaurito col tempo: interesse e apprezzamento per il Neorealismo negli USA sono ancora vivi e sono tante le pubblicazioni, le retrospettive e i dibattiti che a questo movimento vengono dedicati oltreoceano.
Proprio in questi giorni, sempre a New York, l’IFC ospita un’altra pellicola dedicata al periodo forse più impegnato della cinematografia italiana: Neorealismo. Non eravamo solo ladri di biciclette (tradotto per il mercato americano in The Neorealism: We Were Not Just Bicycles Thieves), diretto da Carlo Lizzani e Gianni Bozzacchi.
La narrazione affidata a un Carlo Lizzani che visse quel momento in prima persona, è il pregio di un documentario che per il resto non brilla per originalità né ritmo, ma che semmai resta incastrato in una nostalgia che ha spesso rischiato di soffocare la produzione contemporanea italiana. Il film è un affettuoso ritratto di un periodo di fermento culturale in cui, come ha detto Bozzacchi nel Q&A seguito all’anteprima newyorchese, “registi, sceneggiatori e attori, si incontravano realmente, si vedevano nei bar romani tutte le settimane, passavano del tempo insieme, parlavano, si confrontavano e da lì venivano fuori le idee”. Di quel fermento il film riesce tuttavia a restituire poco, privilegiando una narrazione che si affida alle immagini delle pellicole dell’epoca e a interviste ai pochi “sopravvisuti” di quel periodo. Resta il valore di un documento che ha finito per diventare una sorta di testamento di Lizzani, morto pochi mesi dopo le riprese.