Alberto Burri: The Trauma of Painting: il trauma della pittura, ottima sintesi, per la grande mostra-retrospettiva che il Guggenheim di New York ha organizzato, a partire dal prossimo ottobre, per rendere omaggio ad Alberto Burri, il grande artista umbro nato il 12 marzo di cent’anni fa a Città di Castello (e morto a Nizza il 13 febbraio del 1995). Burri in tutto il mondo è conosciuto per la sua serie di Sacchi, realizzati con resti appunto di sacchi cuciti e rattoppati e tele strappate. Meno conosciuta la serie delle Plastiche (più propriamente combustioni di plastica), e le composizioni realizzate con altri materiali non convenzionali.
Il “trauma della pittura”, dunque; e per comprendere e penetrare il concetto cui vogliono alludere gli organizzatori di questa bella mega-mostra che chi si trova a New York farebbe bene a non farsi sfuggire, è bene ripercorrere alcuni momenti-chiave di questo artista, il cui riconoscimento, diciamolo subito, è stato tardivo: per la buona ragione che non c’era alle sue spalle un solido partito, come – per fare un esempio che pur non intende negarne le qualità – è invece accaduto a un Renato Guttuso. Le Combustioni che costituiscono l’ossatura delle Plastiche, impasto straordinario di creatività e capacità di vedere relazioni là dove ancora non esistono (la definizione la rubiamo al prolifico scrittore, di fantascienza, ma non solo, Thomas Disch); e questo “impasto” nasce in quell’amata/odiata America: in quel campo di concentramento in Texas, a Hereford, dove Burri, ma anche Giuseppe Berto. Gaetano Tumiati, prigionieri di guerra (la seconda) vengono rinchiusi.
Come tanti coetanei, il giovane Burri è fascista, ufficiale medico, volontario in Abissinia, ci crede davvero che quella sia non una guerra di aggressione ma l’Italia “proletaria e fascista” che combatte contro le forze della conservazione. Da lì – è il 1941 – in Albania, al seguito del 102º Battaglione Camicie Nere. Due anni dopo di nuovo in Africa, questa volta in Libia e Tunisia; catturato dagli anglo-americani lo spediscono a Hereford, il “campo” dove sono destinati i “non-cooperatori”. All’ufficiale americano che lo interroga e cerca di convincerlo a “saltare il fosso” Burri oppone una logica inoppugnabile: “Se lei fosse caduto in mano ai tedeschi che cosa avrebbe fatto? Avrebbe collaborato? Io non posso, ho giurato fedeltà al Re”. L’ufficiale l’avrà ammirato, per la sua coerenza. Ma l’ammirazione, se c’è stata, non salva i prigionieri da un durissimo trattamento.
Tumiati, l’autore de Il busto di gesso, in un’intervista racconta: “Dalle gallette alle scatolette di carne, si passò a una misera razione di un’aringa e una pagnotta da dividere in otto. Da novanta chili calai fino a pesarne sessanta. Ci tolsero anche la carta per scrivere le lettere alle nostre famiglie…”.
Esperienza indelebile, per Burri; e indelebili, gli stenti patiti, l’eterna, devastante fame (“per mesi ci si cibò con l’erba del campo, si arrivò a cucinare un serpente a colazione”). Ricordi amarissimi: “Quando fui deportato in America l’unico bagaglio che portai con me fu lo zainetto sanitario che conteneva fiale, medicine e altro. Pensai che ne avrei avuto bisogno durante la prigionia. E invece fu la prima cosa che mi tolsero. Mi tolsero lo zainetto e mi rubarono l’orologio. Ecco quale fu per me il benvenuto…”.
Cosa fa Burri per passare il tempo in qualche modo? Comincia a manipolare la poca materia, che ha a disposizione, poche cose. È qui che nasce il suo procedere artistico, fatto da elementi della quotidianità. Non parte comunque da zero: ha assorbito gli insegnamenti del pittore futurista Enrico Prampolini e però ne reinterpreta le lezioni, le sconvolge, imprime una autonoma e originale impronta.
Finita la guerra, torna a Roma, reduce e artista che fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Potrebbe tornare a fare il medico, ma no, da tempo ha compreso che non è quella la sua strada. Dall’America porta l’ispirazione di utilizzare la materia prima dei suoi futuri capolavori, i sacchi: “Erano buone tele che utilizzavano i nostri soldati in cucina per fare i sacchi dello zucchero e io poi spesso le trattavo con una preparazione di fondo colorata”. Nel 1948, l’anno precedente all’apparizione del sacco di juta SZ1, Burri aveva dato scandalo presentando i Catrami. Sono gli anni in cui matura quella che sarà la sua cifra: oltre che i sacchi le sue composizioni sono ricche di legni, cartoni, catrami, plastiche e ferro; i colori che dominano sono il rosso e il nero: il rosso brillante del sangue con le sue cicatrici; in contrasto con le nere ferite dell’anima.
Non si può dire che abbia vita facile. Quando nel 1959 la Galleria d’arte moderna di Roma acquista il Grande sacco di Burri, il leader comunista Umberto Terracini (che pure non era da comprendere tra i dogmatici del “realismo sovietico; fu uno dei pochi a opporsi al patto tra Molotov e Ribbentrop), presenta un’interrogazione parlamentare in cui si chiedono delucidazioni in merito alla cifra elargita per quella: “vecchia sporca e sdrucita tela da imballaggio che, sotto il titolo Sacco grande è stata messa in cornice da tale Alberto Burri”. I democristiani non ci pensano due volte ad accodarsi alla veemente protesta comunista. Si dirà: erano gli anni Cinquanta. Facciamo un salto di vent’anni: a Torino la sua mostra allestita alla Galleria d’ arte moderna viene chiusa dall’ufficio d’igiene. Leggiamo la cronaca dell’epoca de La Stampa: “L’occasione fu un grande scandalo per i benpensanti… una signora, appena uscita dalla mostra, ha telefonato all’ufficio d’igiene per chiedere una urgente disinfestazione dei quadri, a suo avviso puzzolenti e pieni di microbi”.
Vita difficile in Italia; per una sorta di nemesi, quell’America che tanto l’ha fatto penare, lo porta agli altari. Christian Zervos, biografo di Picasso, informa dei Catrami di Burri il direttore del MoMa, James Johson Sweeney; Burri viene invitato a portare i Sacchi da inserire nella collettiva itinerante Younger European Painters. I “Sacchi” hanno già affascinato Robert Rauschenberg in visita al suo studio, e nel ’53 Burri approda alla Frumkin Gallery di Chicago, che ospita artisti del calibro di George Grosz, Otto Dix e Sebastian Matta.
Aveva carattere, Burri; e dunque, come tutti quelli che ne hanno uno, era un pessimo carattere; i compromessi non erano per lui, quello che pensava, lo diceva; e diceva quello che pensava senza pensarci su; che fosse saggio o meno dirlo. Per quanto si possano discutere le sue opinioni e le sue scelte, un fatto è indubitabile: era quello che gli spagnoli chiamano “hombre vertical”. Gianni Agnelli voleva comperare uno dei suoi sacchi, ed era disposto a pagarglielo profumatamente. Niente, lui per qualche ragione si incaponì, quel sacco Agnelli se lo dovette far vendere da altri, Burri gli disse sempre di no. Piero Palombo nel suo Burri. Una vita, scrive: “Era un uomo riluttante a compiacere i potenti, incapace di blandire, sollecitare, affidarsi alle benevolenze altrui”.
Burri muore, come s’è detto, il 13 febbraio del 1995. Alla moglie, la coreografa americana Minsa Craig, predice: “Chi vorrà vedere i migliori Burri, dovrà venire qui, in Umbria, a Città di Castello”; ed effettivamente ogni giorno da tutto il mondo turisti e appassionati d’arte si affollano negli ex seccatoi da lui acquistati per portare a termine un “Cretto” gigante, e i 90.000 metri quadrati di quello, struggente, dedicato a Gibellina, monumento alle vittime del terremoto che sconvolse il Belice del 1968. Oppure fanno la fila allo storico Palazzo Albizzi, che custodisce il resto della collezione Burri. E ora il giusto, doveroso, omaggio del Guggenheim.