È circa un secolo e mezzo da quando gli artisti, e ancora di più i galleristi, hanno scoperto che a fare gruppo si richiama più facilmente l’attenzione del pubblico. Ecco allora l’ultimo neologismo creato per accomunare un gruppo di pittori italiani che sono quasi tutti, allo stesso tempo, scultori: è il Rigorismo. A meno che non ce ne sia qualcun altro ancora più recente; questo ha comunque la distinzione di essere adesso sbarcato anche a New York, dove i suoi componenti espongono all’Istituto Italiano di Cultura.
La mostra ha per titolo questo suo nome, e tutti i pezzi esposti s’ispirano allo stesso criterio: sono tutte esibizioni totalmente astratte di materia e di colore, manipolate in modo da imporre in modo inaspettato la loro presenza. Come afferma l’introduttore del breve catalogo, Massimo Donà, quello menzionato dal loro manifesto “è un rigore che forza lo spazio a diventare cosa, piuttosto che le cose a riempire lo spazio”. Bene. Un concetto più filosofico che artistico – non per nulla molti dei partecipanti a questa corrente sono anche filosofi, e non per nulla i più anziani hanno esordito a suo tempo sotto un’altra etichetta di natura più filosofica, quella di spazialisti – ma qui è evidentemente il risultato estetico il solo che veramente conta. A parte questo, non si può dire che tutti gli artisti esposti cedano nello stesso modo all’impulso di raggiungere un traguardo rivoluzionario.
Ma ecco in ordine alfabetico i loro nomi: Giuseppe Amadio, Cesare Berlingeri, Agostino Bonalumi, Angelo Brescianini, Stefano Brunello, Dadamaino, Riccardo Gusmaroli, Alberto Loro, Pino Manos, Umberto Mariani, Armando Marrocco, Gianfranco Migliozzi, Vanna Nicolotti, Nereo Petenello, Pino Pinelli, Maria Savino e Turi Simeti.
Come vede chi ha già seguito individualmente questi artisti, ce ne ne sono di tutte le generazioni a partire dagli Anni Cinquanta. Quanto a genealogia, la prima impressione della mostra è che nessuno di loro si esprimerebbe con lo stesso dizionario se non ci fossero stati, prima di loro, Lucio Fontana, Alberto Burri e soprattutto Donald Judd (autore anche del trattato apparso nel 1964, Specific Objects). Tra gli italiani, i più vicini alle fonti sono Agostino Bonalumi e Turi Simeti, quest’ultimo noto e influente anche in America per i suoi “quadri sculturali” e come una voce indipendente nel contesto sia della Pop Art che del minimalismo. La sua specialità era l’esaltazione della forma in un tempo in cui Warhol e gli altri si battevano per l’esaltazione dell’oggetto. Di questa sua particolare priorità si sta accorgendo in questo momento anche il mercato dell’arte, che nell’ultimo paio d’anni ha visto il valore delle sue opere soprattutto in America in aumento vertiginoso.
Ma anche tutti gli altri in questa mostra hanno adesso qualche cosa di interessante e di nuovo da dire. È impossibile menzionarli tutti, ma chi scrive è stato soprattutto colpito, oltrechè dalle ultime edizioni dei “quadri sculturali” di Simeti, dagli improvvisi, eleganti contrasti cromatici chiaroscurali di Bonalumi; dalla timida apparizione di oggetti, per esempio strumenti musicali, sulle severe tele monocolori tridimensionali di Gianfranco Migliozzi (un percorso seguito a suo tempo anche dal cubismo); e dalle brillanti applicazioni metalliche, molto spontanee, sulle superfici monocrome di Vanna Nicolotti (soprattutto in una sua “mandala” buddista del 1976).
Anche molto interessante è l’iniziativa dell’Istituto di Cultura italiano, attualmente sotto gestione provvisoria della console generale italiana a New York Natalia Quintavalle, di organizzare vere e proprie mostre d’arte. È anzi questa la seconda iniziativa del genere presa dall’Istituto nell’ultimo biennio. Chi poi si scandalizzasse degli eventuali riflessi pubblicitari e infine economici di queste esposizioni in quello che è indiscutibilmente il mercato mondiale dell’arte contemporanea, Manhattan, non ha che da riflettere sui problemi di bilancio che oggi amareggiano mezza Europa. Uno scampolo di cronaca newyorchese può anzi indurre a ulteriore riflessione: proprio accanto al palazzetto dell’Istituto di proprieta del governo italiano, sull’elegantissima Park Avenue ce n’è un altro identico, di proprietà spagnola, in cui ha sede l’analogo Istituto di cultura spagnolo: il palazzetto, come dice un vistoso cartello, è in vendita, e a chi telefona viene specificata la cifra: 42 milioni di dollari.
La mostra resterà aperta all'Istituto Italiano di Cultura, 686 Park Avenue, New York, fino a fine mese.