New York, l’arte di spregiudicata avanguardia, le fughe dell’immaginazione, il MoMA. Però non bisogna nemmeno dimenticare che New York è anche una delle città più devote all’arte come fedele specchio della natura. Così se c’è grande attesa a Manhattan per la riapertura di uno dei massimi centri dell’arte astratta americana, il museo Whitney, nella nuova sede di Renzo Piano, l’ambiente artistico ha appreso con uguale emozione che sta per riaprirsi in un vecchio palazzo della 64th Street, all’angolo di Lexington Avenue, dopo lunga riorganizzazione, il museo Dahesh di arte figurativa, una delle più grandi collezioni esistenti di pittura accademica dell’Ottocento e Novecento europei. O ha notato con lo stesso interesse che il Metropolitan Museum ha estratto dai depositi e collocato in uno dei suoi corridoi più importanti un grande e stupendo quadro di Léon Lhermitte, pittore naturalista francese a cui van Gogh guardava come a uno dei suoi principali maestri.
Da parte mia non vorrei omettere di segnalare, perchè rappresenta uno straordinario ponte tra la fedele osservazione della natura e il più avventuroso astrattismo, una troppo breve mostra (chiusa il 31 gennaio) alla David Findler jr. Gallery di Jon Schueler, artista del Wisconsin scomparso 22 anni fa che aveva dedicato tutta la vita allo studio e alla rappresentazione del cielo. Solo la pittura del grande Turner ha raggiunto una uguale profondità nell’investigazione della luce naturale; e solo i quadri di Mark Rothko hanno potuto avvicinarsi sul piano astratto, e sia pure a grande distanza, a quegli effetti e contrasti di colore. La storia della passione di Schuler per il cielo è unica. La guerra aveva interrotto i suoi studi di perfezionamento all’università del Wisconsin quando fu chiamato alla scuola di aeronautica militare e poi destinato al ruolo di ufficiale di rotta a bordo dei b-17 americani che incrociavano sui cieli della Francia, della Germania e dell’Italia.
Fu rimanendo per ore col naso schiacciato contro la bolla di plastica dei bombardieri che Schueler sentì penetrare in lui per la prima volta, e poi crescere all’ infinito, il richiamo del cielo; un richiamo – come ha detto poi lui stesso nelle interviste – che investiva tutti i suoi sentimenti, tutte le sue memorie. Questa l’origine della sua vocazione di pittore e poi di esponente forse unico di una scuola interamente dedita alla rappresentazione del cielo. Al ritorno dalla guerra i suoi primi quadri impegnativi lo avevano fatto accogliere nel movimento artistico più significativo del periodo, quello dell’Espressionismo astratto newyorkese, rispetto a cui aveva conservato però sempre una posizione personale completamente indipendente.
Con l’affermazione clamorosa della Pop Art alla fine degli Anni Sessanta aveva preferito lasciare New York e si era trasferito in Scozia, paese di cieli burrascosi e foschi, malinconici e smaltati. La sua tavolozza si era rinnovata e arricchita, sempre attraverso quella che per lui rimaneva la metafora unica della realtà fisica e insieme dell’arte, il cielo.
Dopo una mostra personale dedicatagli dal museo Whitney nel 1975 e un’altra tenuta al non meno importante museo di Cleveland nel 1976 in cui i suoi lavori erano esposti, come una sfida, accanto a quelli di Mark Rothko e di Milton Avery, appassionatmente astratti, eppure, curiosamente, così simili ai suoi, Schueler si era rinchiuso nei suoi studi di New York prima nel Greenwich Village, poi a Chelsea, producendo un’altra meravigliosa serie di interpretazioni del cielo e lavorando su quello stesso soggetto fino alla morte nel 1992. Sono le opere di questo periodo quelle presentate, per la prima volta, a New York in questi giorni.