Poco più che trentenne, Anna (Marianna Fontana) ha già pagato per il reato che ha compiuto poco più che adolescente – l’uccisione della sorella gemella – ma il giudizio vive al di là della sentenza, sia nei suoi occhi, sia in quelli della gente. Non riesce nemmeno a trovare la forza di incontrare di nuovo sua madre, nonostante il percorso di giustizia riparativa che sta portando avanti da anni insieme ai mediatori penali.
È così che si trasferisce in una piccola città dove trova lavoro come bibliotecaria. Tuttavia, Marco (Lorenzo Gioielli), il direttore che l’ha assunta, appare da subito fin troppo premuroso nei suoi riguardi: ha intuito il peso del suo passato scomodo e cerca di manipolarla, promettendole di mantenere il suo segreto. Almeno fino a quando Anna non incontra Antonio (Giovanni Anzaldo), un uomo timido e introverso, che riesce a instaurare con lei un rapporto puro, per quanto impacciato. Marco, insofferente alla loro frequentazione, finisce per rivelare tutto ad Antonio e al resto della comunità. In un attimo il passato torna a bussare alla porta di Anna: troverà la forza di affrontarlo e aprirsi così ad una seconda vita?
Presentato nella sezione competitiva ItaliaFilmFestival/Nuovo Cinema italiano del Bif&st di Bari, La seconda vita, diretto da Vito Palmieri (vincitore del Gran Prix del pubblico di Shanghai con il suo film d’esordio, See you in Texas e al Toronto Film Festival con il suo corto Matilde, nonché autore del riuscito Il giorno più bello) colpisce nel profondo non solo per il delicato ed urgente tema del reintegro sociale dopo un’esperienza di detenzione ma anche perché è anche un viaggio attraverso anche la nostra anima, il nostro vissuto. Alla fine della proiezioni non erano pochi gli spettatori commossi.
Ecco quanto ci ha detto il regista. Com’è nato il personaggio di Anna?
“Da un percorso di lezioni di cinema che ho tenuto in carcere a Bologna. Questo programma di lezioni mi ha permesso di avere un rapporto diretto con diversi detenuti e con loro abbiamo provato a confrontarci su quello che poeva essere una storia da raccontare, perché non erano semplici lezioni frontali, ma erano finalizzate in qualcosa da filmare. Parlando è venuta fuori la loro paura, non solo riguardo alla permanenza in un istituto penitenziario ma anche nell’uscita da esso: anche se ci sono dei percorsi di reintegrazione sociale dal punto di vista lavorativo e sociale, la loro paura una volta fuori riguardava soprattutto il come vivere e recuperare i legami affettivi. Questa cosa qui era per loro un po’ un tabù, temevano il giudizio degli altri. Proprio da queste riflessioni è nato il personaggio di Anna, una donna che vuole riscattarsi e vivere una seconda vita, dimenticare il suo scuro passato”.
Le gigantesche sculture solitarie di uomini e donne sono metafore della solitudine dei protagonisti.
“Sì, anche questo sicuramente, però questi uomini e donne che emergono dalla terra, e che sono presenti nel comune di Peccioli dove abbiamo girato il film, ben si addicevano alla storia perché quel loro emergere dalla terra, con forza e anche prepotenza, significava proprio rinascere, tornare fuori decisi”.
Non è un film sul perdono. Anna ha pagato il suo conto, ma il giudizio della gente non finisce mai: la giustizia riparativa, il rientro sociale, è facile parlarne, però poi, nella realtà, è molto difficile a realizzarsi.
“Sì, però a differenza della giustizia tradizionale che coinvolge solo i due confliggenti, cioè colpevole e vittima, la giustizia riparativa ti permette di coinvolgere anche la comunità, c’è un dialogo anche con la popolazione dove è stato compiuto il reato. È la novità di questa forma di giustizia riparativa che è parallela alla giustizia tradizionale, cioé coinvolgere il più possibile anche la società, la comunità, per mettere possibilmente fine ai tanti pregiudizi che circondano gli ex carcerati. Ecco perché non è un film sul perdono ma che mette l’accento sulle relazioni sociali”.
Tra chi ha commesso il crimine e la società, e sul come anche chi ha commesso un crimine può essere di aiuto alla comunità una volta fuori.

“Sì, proprio così. Anche la vittima a volte è prigioniera, quindi anche il confronto con l’autore del crimine, l’ascolto, è una cosa fondamentale, che però non si dà per scontato, facile da verificarsi”.
Una necessaria capacità di ascoltare che permea tutto il film. Anna è alla ricerca di un equilibrio mentale che non significa dimenticare quello che ha fatto, ma accettare la possibilità che ci sia per lei una seconda vita.
“Antonio e la comunità sono indecisi se continuare una relazione con una donna che ha avuto un passato criminale, però poi Antonio è disposto ad ‘ascoltare’ Anna e rivedere il suo punto di vista: in Antonio ho voluto rappresentare il futuro possibile”.
E la campana?
“Antonio è un introverso, ma ha anche la capacità di fare delle scelte e di prendere una decisione, nonostante un rapporto troppo stretto con il padre, suo tutore. Ad un certo punto gli viene commissionato il compito di riparare un’enorme campana. È un lavoro molto importante per la comunità, perché rappresenta il simbolo del paese: lui è quindi sotto gli occhi di tutti e e deve sentire la responsabilità di riparare la campana. Un altro simbolo forte della campana è nella crepa: è un po’ come la vita di Anna, una ferita aperta che anche Antonio cerca di riparare. Si parla insomma di riparazione, non solo come giustizia, ma anche di riparazione vera e propria materiale, e quindi quella ferita simboleggia anche la ferita aperta nella società”.