Ottobre, 2007. Broadway. Amy Hempel esce dall’albergo. Guarda l’orologio, è in anticipo per la presentazione newyorkese di The Collected Stories of Amy Hempel (Ragioni per vivere, tutti i racconti, SEM, traduzione di Silvia Pareschi). Ci pensa un po’ e decide di arrivarci a piedi. Sarà un buon modo per scaricare la tensione. Non ama le interviste, non le ha mai amate. Quando glielo fanno notare risponde usando le parole della sua amica Patty Marx “Non sono brava nelle chiacchiere. Parlare di sé è sia sconveniente che snervante e le domande tendono a provocarmi una forte esasperazione.”
Si ritrova davanti all’università della Columbia. Le facce degli universitari emanano tutte una particolare sfumatura di complicità: quei ragazzi hanno spazzato via ogni residuo di brufoli, bronci e rotondità infantili ma non sono ancora capaci di camminare da soli nella vita adulta.
Lei li conosce bene perché era una di loro. Aveva diciannove anni quando si iscrisse in quell’università al seminario tenuto da Gordon Lish. Era appena diventato editore presso Knopf dove continuò a pubblicare molti dei suoi scrittori come Raymond Carver e Barry Hannah.
Per il primo compito dei suoi studenti, Gordon Lish chiese di scrivere del loro peggior segreto, qualcosa che, come disse lui, “smonta il senso di te stesso”.
“Scoprimmo che la posta in gioco era molto alta” ha ricordato la Hempel in un’intervista a The Paris Review quasi 30 anni dopo “ci si aspettava che dicessimo qualcosa che nessun altro aveva detto e che divulgassimo verità molto più dure di quelle che avevamo mai raccontato o che avevamo mai pensato di raccontare”.
Il risultato, per Hempel, fu “In the Cemetery Where Al Jolson is Buried” (Nel cimitero dove è sepolto Al Jolson), apparso su TriQuarterly nel 1983. Una narratrice, che potrebbe essere o meno la Hempel, fa visita alla sua migliore amica morente in ospedale e si rifiuta di trascorrere la notte con lei. La storia è composta da meno di 3.000 parole, molte delle quali di dialogo: le curiosità, le battute macabre, le conversazioni con medici e infermieri, i ricordi che condividono. Il racconto è una cronaca del dolore e una testimonianza dell’impotenza universale di fronte alla morte.
Lish è rimasto così colpito dal suo lavoro che l’ha aiutata a pubblicare la sua prima raccolta di racconti: Reasons to Live. I personaggi di queste storie brevi vivono di piccoli trionfi di arguzia, ironia e spirito: una vedova, circondata da un piccolo zoo, fa i conti con la morte del marito veterinario; all’indomani di un aborto, una donna lavora compulsivamente a maglia per il bambino di un’amica. Colpiti da brutti shock, ostacolati da piccole incomprensioni, i personaggi riconoscono che qualsiasi cosa può finalmente diventare una ragione per vivere.
Hempel ha scritto altri libri di racconti, tutti inseriti nella raccolta The Collected Stories of Amy Hempel, pubblicate nel 2006 con un’introduzione di Rick Moody. Il libro è stato finalista per il 2006 PEN/Faulkner Award for Fiction ed è stato selezionato dal New York Times Book Review come uno dei 10 migliori del 2006. Amy Hempel è diventata una delle prime scrittrici di racconti a cui è stato conferito il termine “minimalista” ma, come hanno notato diversi critici, “miniaturista” potrebbe essere un termine più accurato poiché alcune delle sue storie sono molto brevi. Come scrive Dario De Marco in Esquire “ Amy Hempel è una miniaturista, paziente ornatrice di particolari minuscoli e rivelatori”. Anche nelle sue storie più lunghe lo stile risulta compresso ed economico all’estremo. In un’intervista, Hempel ha detto: Molte volte ciò che non viene riportato nelle mie storie è più importante di ciò che effettivamente appare sulla pagina. Spesso il fulcro emotivo è un evento sottostante che potrebbe non essere descritto o nemmeno menzionato nel racconto.

Amy Hempel guarda l’orologio. Si sta facendo tardi e le sta salendo l’ansia per la presentazione. Si volta e lungo la strada vede un Jack Russell che corre da solo trascinando il guinzaglio nero. Prova ad attirare la sua attenzione con fischi e richiami, il cane la osserva, rallenta e si avvicina piano. L’annusa e poi si lascia accarezzare dietro le orecchie. Dopo poco arriva correndo la proprietaria del cane che si scusa. Sembra una vecchia hippy con scarpe basse, pantaloni larghi e maglione arcobaleno. Le due donne si presentano, Amy Hempel le spiega che lei è un’educatrice canina specializzata nei cuccioli. Lei e suo marito addestrano i cani per la Guiding Eyes for the Blind (per i non vedenti). Le spiega anche che è una scrittrice. A quel punto la padrona del Jack Russell socchiude gli occhi, poi le chiede se è l’autrice di A Full-Service Shelter (un rifugio con tutti i servizi).
La scrittrice rimane sorpresa ma annuisce.
La donna spiega che ha letto l’articolo di Rick Moody su Electric Literature e che quando ha letto il racconto ha pianto come non pensava di poter fare.
“A Full-Service Shelter” è presente nella raccolta Sing to it (Nessuno è come qualcun altro SEM traduzione di Silvia Pareschi) e racconta la storia di un’assistente volontaria in un canile per cani destinati a essere uccisi, se non adottati. Ripetendo ossessivamente lo stesso incipit («Mi conoscevano come quella che» oppure «Ci conoscevano come quelle che») descrive sé stessa e le altre che lavorano insieme a lei, donne sole che cercano affetto fra animali soli quanto loro.
La proprietaria del Jack Russell l’abbraccia, d’istinto. Amy Hempel si lascia stringere. Dopo quest’incontro, è sicura che la presentazione andrà benissimo.