Jim (Jordan Oosterhof) è un pugile diciassettenne che vive in una piccola città. È un ragazzo d’oro, che si sta preparando per una lotta che lo eleverà allo status professionistico precoce. Tutte le scommesse sono sulla sua scalata al successo. Ma suo padre Stan (Tim Roth) è un allenatore esigente e un alcolizzato. Mentre Jim inizia a ripensare al motivo per cui sta combattendo, la sua vita si intreccia con Whetu (Conan Hayes), un ragazzo Maori gay dalla lingua tagliente che trascorre le sue giornate in una vecchia baracca, insieme al cane Moimo, e sogna di lasciare la città per diventare un musicista. Lontano dalle bandiere arcobaleno e dalle parate del Pride, Jim e Whetu devono affrontare l’isolamento, l’ipocrisia, la brutalità del pugilato nelle piccole città e un brutale attacco queer anonimo e di cui nessuno parla. Jim deve gestire i suoi crescenti sentimenti per Whetu, la pressione dei sogni di suo padre per il suo futuro e le richieste di tutte le varie persone in città che vogliono definire l’uomo che diventerà. I due giovani stringono un legame forte e Jim impara a sue spese cosa vuol dire seguire le proprie passioni quando si ama un altro uomo in un contesto ostile e che la forza ha poco a che fare con l’eroismo. Jim e Whetu sono costretti ad andare contro tutto e tutti, affrontando, separati, la grande sfida della loro vita.

Questo è Punch, lungometraggio d’esordio, ed autentica piccola gemma indipendente, di Welby Ings (fino a 15 anni non sapeva né parlare né scrivere, ora è professore universitario!) presentato in anteprima internazionale al Bif&st 2023 di Bari.
Se Tim Roth è in un progetto, sono sempre curioso e anche questa volta sono stato ben ricompensato, pur se il lavoro di Ings mostra qua e là una certa ruvidezza. Il film presenta un ritmo tortuoso e sognante, che risulta un tocco appropriato per il modo organico in cui si sviluppa la relazione tra i ragazzi, ma questo è in contrasto con il ticchettio dell’orologio stabilito all’inizio del film con un imminente e cruciale incontro di boxe e, in seguito, con la crescente malattia di Stan. Di pregevole nel film, oltre alla recitazione dei personaggi, c’è la capacità di spiazzare lo spettatore rispetto alla direzione che si aspetterebbe. La cinematografia di Matt Henley è suggestiva e meravigliosa ed eleva il film, specialmente nelle scene che Whetu e Jim trascorrono insieme.

Altra anteprima internazionale presentata al Bif&st è Le Torrent-Il torrente.
Quando Alexandre (José Garcia) scopre che la sua giovane moglie, Juliette (Ophelia Kolb), lo tradisce, scoppia una violenta discussione. Juliette fugge nella notte, cade e muore. Il giorno dopo, una pioggia torrenziale spazza via il suo corpo. La gendarmeria avvia un’indagine e arriva Patrick (il sempre bravo André Dussollier), il padre di Juliette, pronto a tutto pur di scoprire cosa è successo durante quella notte di alluvioni. Alexandre, che teme di essere accusato, convince Lison (Capucine Valmary), sua figlia di primo letto (18 anni), a coprirlo. Affonda sempre più in profondità nelle bugie e Patrick inizia a sospettare di lui. Intrappolata tra i due uomini, Lison potrebbe capovolgere tutto. E’ l’inizio di una terribile spirale.
Le torrent-Il torrente, diretto e interpretato (il capitano della polizia) da Anne Le Ny è un piccolo thriller di montagna, un thriller psicologico che, senza tempi morti e scene d’azione, pone bene le basi con una struttura capace di coinvolgere inizialmente lo spettatore anche se conosciamo già il colpevole (come ai bei tempi di Hitchcock o certe serie poliziesche cult), ma la cui sceneggiatura ben presto si affloscia, inondata da cliché, e spesso sembra ricordare un blando film per la TV che non un lungometraggio da sala cinematografica.
Gli ultimi cinquanta minuti, delle quasi due ore del film, aprono un’immensa parentesi di vuoto, pur se la sceneggiatura cerca di scavare nella mente di personaggi ai quali la trama non ha però lasciato nulla da scoprire: il senso di colpa, filo rosso del film, si rivela poco resistente in una trama che sta velocemente crollando.
Insomma, uno spreco enorme, con la sensazione di trovarsi di fronte a una sceneggiatura incompiuta, a cui mancano delle pagine e una qualsiasi ambizione. Restando in tema con il titolo, direi che il film nel finale fa acqua da tutte le parti, colpa di fondamenta troppo fragili, inadeguate ad impedire l’inondazione del vuoto.