Quarantasei anni fa Pasolini parlava di “involuzione antropologica e culturale” e invocava “la dignità ed il coraggio di chiudere questo sipario”. In una recente intervista con Gianni Canova, il regista Sergio Rubini denuncia l’assenza di intellettuali scomodi, mentre Ridley Scott si esprime sul genere cinematografico più popolare di oggi: “I film della Marvel sono noiosi come una m***a, senza una sceneggiatura adeguata, recitati in modo mediocre e si salvano giusto per la sovrabbondanza di effetti speciali. Ma hanno anche dei difetti”… e sono a tutti gli effetti la cosa preferita dal pubblico.
Il degrado culturale dei nostri tempi, imbarbarito dall’arroganza del proprio gusto personale sempre meno nutrito di reale critica, conoscenza, comparazione e competenza, è per qualcuno cosa evidente e in evoluzione. I social media hanno sdoganato l’autoproduzione; Internet e tutte le sue piattaforme hanno esponenzialmente aumentato la quantità di offerta riducendo drasticamente la qualità; tutti sono artisti, tutti hanno qualcosa di interessante da dire, a tutti piace un po’ di tutto ma nessuno sa motivare le proprie preferenze, nessuno sa articolare un’analisi critica, fare selezione, riconoscere la qualità svincolata dalla mera reazione “di pancia” ma originata da un minimo di osservazione, confronto e critica. Sono tra quelli che soffre il cambiamento non tanto formale quanto sostanziale del panorama culturale di oggi, soprattutto se messo a confronto con il ventennio ’60/’70, che ha originato una produzione artistica, intellettuale e culturale di innegabile livello.

Di questa preoccupazione ne abbiamo parlato con colui che il New York Times ha definito “Un Instituto culturale in una persona sola”: lo scrittore, professore universitario e direttore della Festa del Cinema di Roma, Antonio Monda. Siamo andati a trovarlo nella sua casa sulla Upper West Side di Manhattan.
Parliamo prima di tutto della tua Festa del Cinema di Roma, che dal 2015 ha perso il connotato della competizione. Rimane solo un premio assegnato dal gradimento del pubblico ma in sostanza tutti i film partecipano alla manifestazione già da vincitori.
“Si, è una cosa che ho fortemente voluto perché non credo che i film debbano competere tra di loro ma debbano essere festeggiati e celebrati. E ho anche abolito l’obbligo della ‘prima mondiale’. Quest’anno ne avevamo 38, se non sbaglio, quindi non è che non ci siano però mi vanno benissimo anche delle prime europee. Io avevo un’idea di festa anche perché se ci si impunta a scegliere film da mettere in competizione tra loro e sulla sola base delle prime mondiali inevitabilmente si finisce per fare una Venezia di serie B e questo non me lo posso permettere: io voglio una Roma di serie A. Non amo il mondo delle giurie, delle vallette o dell’attore che si pone come immagine del festival; sono tutti elementi di una macchina che rispetto altrove ma da noi non ha senso. Io ho spostato il baricentro della festa sugli incontri. Io li chiamo ‘Incontri Ravvicinati’ in omaggio a Spielberg e sono una vera rivoluzione copernicana perché le grandi star solitamente si presentano ai festival, stanno su uno yacht, stanno all’Hotel Du Cap, fanno il red carpet, presenziano alla conferenza stampa, salutano i fan e spariscono. E il pubblico continua a vederli così, come divi irraggiungibili. Io invece li invito a dedicare almeno un’ora – delle volte sono state anche due – a parlare, insieme a me o ai miei colleghi, con il pubblico. È un’esperienza completamente diversa e la cosa che più mi rende orgoglioso è che quasi tutti vengono senza un film in promozione; non vengono a “vendere” qualcosa. Quest’anno Quentin Tarantino e Tim Burton non avevano nulla in uscita, sono venuti perché si fidavano del sottoscritto e del prestigio della festa. Questo spostamento ha fatto della Festa del Cinema di Roma qualcosa di unico. Gli altri festival possono averne due o tre di incontri, noi ne facciamo 15″.

Credo che la qualità sia qualcosa che debba avere un certo grado di oggettività altrimenti non avrebbe senso definirla. Con quali criteri tu e la commissione che ti affianca scegliete i film per garantire questa qualità?
“Posso dirti quello che non seguiamo: non seguiamo mai le quote. L’unica quota che a me e ai selezionatori che lavorano con me interessa è quello della qualità; che il film sia di un regista appartenente ad una minoranza, vuoi che sia religiosa, filosofica, politica, etnica, a me interessa poco: deve essere bello o almeno corrispondere a quello che noi riteniamo che sia bello, questo è soggettivo. Le quote non esistono da noi.
L’altro aspetto che teniamo in considerazione è il rapporto con il cinema italiano. Il cinema italiano ha avuto sempre un occhio di riguardo, come a dire “è italiano e quindi bisogna aiutarlo”. Io sono contrario, e proprio perché amo il cinema italiano: credo che lo si aiuti selezionando e non allargando”.

Per continuare a parlare di qualità e del suo livello vorrei approfondire il concetto di gusto personale: lo si interpreta spesso come qualcosa di sacrosanto e incontestabile quando in realtà non è altro che la somma di tutto ciò a cui siamo stati esposti e abbiamo imparato quindi assolutamente discutibile. Ha sostituito il senso critico e la risposta ad una critica negativa è di solito “chi sei tu per giudicare? Se mi piace vuol dire che ha valore”. Come correggiamo questo atteggiamento?
“Lo si corregge mai per legge. Si corregge con i fatti. Se organizzi un festival fregandotene di questo tipo di cose dai un segno. Non voglio dire che educhiamo le masse perché sarebbe altisonante, pomposo e odioso e soprattutto sbagliato. Il nostro dovere è quello di tenere fede a quello in cui noi crediamo e interpretare quello che noi stessi riteniamo essere bello, di valore e di qualità. Oggi il rischio è un altro: una serie di vincoli e auto limitazioni che ci si mette perché non si vuole offendere una certa minoranza, si ha paura di dire una cosa scorretta; tutte cose che nascono da motivazioni nobili all’origine che però stanno creando un’onda che travolge tutto e tutti. Pensa all’Accademy che dal 2024 ha imposto la quota per le diversità nei film che vogliono concorrere per il miglior film: Il padrino non potrebbe vincere e questo è assurdo”.

Se guardiamo alla maggior parte della produzione audiovisiva ci sono principalmente supereroi, fantasy, prequel, sequel, adattamenti letterari e biografie: c’è una crisi creativa? Mancano gli autori di una volta capaci di inventare storie di spessore e personaggi interessanti?
“No, non credo, è sempre stato così. Ci sono stati due grandi cambiamenti nell’industria mainstream. Uno alla fine degli anni ’60 con il crollo dello studio-system: crolla la filiera per cui un film, dal concepimento fino alla distribuzione, è gestito completamente dallo studio. Il secondo cambiamento, più fluido, è stato il momento in cui le grandi case di produzione sono diventate delle corporations. Prima la Metro Goldwin Mayer era nelle mani di Samuel Goldwin e Louis B. Mayer, la Warner Bros erano i fratelli Warner, Fox era un signore che si chiamava Fox, la Columbia aveva Harry e Jack Cohn… ognuna aveva un mogul. Adesso invece sono delle multinazionali e questo spersonalizza l’input del grande produttore e li rende asserviti al profitto”.
Si ma il pubblico c’è sempre stato ed è sempre andato al cinema. Si può fare incasso con la qualità: ho confrontato le classifiche dei blockbuster americani del 2019 (mi sono tenuta lontana dalla pandemia) con quelli del 1975 e del 1968 (vedi tabella): il confronto è imbarazzante. Possono mai essere considerati sullo stesso piano?
“Beh, ti sei risposta da sola. Ora, non bisogna neanche disprezzare i film della classifica più recente perché molti hanno dei production values di grandissimo livello. Certo, un film firmato da Spielberg, Polansky, Kubrik, Zeffirelli, Pollack, Lumet… io non vedo questi nomi adesso”.
E di chi è la responsabilità?
“Della trasformazione di un industria ancora familiare e personale in un industria corporativa e multinazionale”.
É qui che artisti ed intellettuali dovrebbero avere un ruolo importante di critica e guida. La tua casa è stata definita “l’ultimo salotto culturale di New York”, definizione che tu hai rifiutato nella sua accezione negativa ma è sicuramente un ambiente di spessore che può contribuire.
“Si, rifiuto il termine salotto perché vuol dire essere vanesio, superficiale, essere snob. Io spero di non esserlo. Questo in cui siamo ora è il famoso “salotto”, è molto semplice; lì in camera da pranzo mangiamo ogni domenica io e una decina di invitati e scambiamo idee col gioco, con il piacere di divertirci. É passato chiunque, questo è vero, sia gente famosa che non ma di primissima qualità, e forse rimarrai sorpresa ma certe volte giochiamo: “qual è la scena più erotica di tutti i tempi al cinema?”, “qual è il più bel nome per un attore?” – mi pare abbia vinto Marlon Brando. Facciamo dei giochi e ci divertiamo così, non c’è nulla di presuntuoso, nulla di snob e tutto si rifà ad una frase che mi diceva mio padre: “se tu mi dai una cosa e io ne do una a te avremo entrambi una cosa sola ma se ci scambiamo un’idea alla fine ne avremo due”’; noi qui scambiamo idee.

Chi sono gli intellettuali oggi e soprattutto sono ancora come quelli di una volta, il cui peso era necessario e riconosciuto?
“Si, credo di si. Non parlo per l’Italia perché vivo qui da quasi 30 anni e quindi non ho il polso della situazione. Ma qui a New York abbiamo eccome degli intellettuali: Daniel Mendelsohn è un intellettuale di primissimo ordine che non ha nulla da invidiare a quelli degli anni ’40/’50/’60; potrei dire lo stesso per Henry Finder, per Ian Buruma, è morta da pochi anni Susan Sontag, se non è un’intellettuale di straordinaria qualità lei, chi lo è? Quelli italiani sono morti ormai da tempo, Sciascia, Pasolini. Non è che c’è un declino. Ogni generazione fa il laudator temporis acti ma non è così; abbiamo linguaggi diversi e li decliniamo in maniera diversa. Gli intellettuali ci sono e ci saranno, bisogna stare attenti a non farli diventare come i maiali della fattoria di Orwell – tutti gli animali sono uguali tranne i maiali che sono più uguali degli altri – me neanche arrivare alla barbarie goebbelsiana del “metto mano alla pistola” quando sento il termine”.
A proposito di New York, qualche anno fa hai cominciato una serie di libri, uno per decennio del ‘900 e tutti ambientati nella tua città d’adozione. Il principe del mondo è l’ultimo e so che te ne mancano ancora due ma in generale che New York ne esce fuori?
“Innanzitutto, io vedo questi romanzi come un unico libro in 10 volumi, tant’è vero che i personaggi ricorrono e sono tutti legati. La seconda cosa che vedo è che sono un atto d’amore per New York. Il complimento più bello che mi ha fatto il New York Times è quello di avermi chiamato “il custode delle glorie di New York”, il che mi commuove molto. È un atto d’amore per una città che mi ha dato tantissimo e della quale non vedo solo i lati splendenti; vedo anche i lati duri, spietati, le meschinità ma che non smetterò mai di ringraziare. Il prossimo che sto scrivendo, Il numero e il nulla – ispirato ad ‘A hard rain’s a gonna fall‘ di Bob Dylan – è la storia di un assassino raccontata da se stesso; una persona che ritiene che quello che fa è un lavoro, quindi non ha nessuno scrupolo, nessuna morale ma poi… succedono cose. È la New York degli anni ’30, quindi subito dopo la Grande Depressione, in piena ripresa economica ma raccontata dai bassi fondi, dai criminali”.

Per chiudere questa intervista con un generico sguardo al suo tema centrale, sei preoccupato per il livello culturale dei nostri tempi o ti sembra soddisfacente?
“Soddisfacente non lo è mai ma ogni generazione ti dirà la stessa cosa. Certo, quando tu mi leggi quelle classifiche a confronto un po’ mi spaventa ma lì c’è un dato economico. Io sono assolutamente positivo”.