Avevo 12 anni quando Bozzolo per qualche giorno si trasformò in Hollywood, quando uscivamo dalla scuola media ci imbattevamo in Burt Lancaster, Gerard Depardieu o Robert De Niro che prendevano il caffè dal Walter, come i nostri papà. Ma il nome che veniva appena sussurrato, con maggior rispetto e deferenza era: “Bertolucci”. I più fortunati, assunti come comparse, raccontavano alla sera in piazza le loro avventure sul set. Se poi Bernardo (beh, loro che erano sul set lo chiamavano così) si era rivolto direttamente a loro anche solo per chiedergli l’ora… la fama imperitura era assicurata. Dicevano che il film si sarebbe chiamato “Novecento”, ma non si sapeva ancora.
Un giorno mio padre portò me e mio fratello ad assistere alle riprese di una scena sull’argine dell’Oglio; c’erano cavalli, centinaia di comparse, gli attori famosi, le macchine per fare la nebbia (quel giorno, per caso, non ce n’era di vera) e sopra tutti c’era lui: Bertolucci. Era come una magia per me vedere come tutta quella gente si muoveva ai suoi ordini. E anche le lunghe attese fra una ripresa e l’altra, mentre i cavalli si riallineavano, erano entusiasmanti. Le donne si coricavano sull’argine, davanti ai soldati a cavallo che dovevano procedere allo sfratto della famiglia, e cantavano, anzi urlavano, la canzone della Lega, della lega buona, quella che proteggeva i lavoratori dai soprusi dei proprietari terrieri: “Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, abbiam delle belle buone lingue e ben ci difendiamo”.
Non sapevo che stavo assistendo alle riprese di una delle scene più epiche nella storia del cinema italiano e non potevo immaginare che un giorno avrei spiegato Bertolucci e i suoi film straordinari ai miei studenti americani, ma forse la mia passione per il cinema è cominciata proprio quel giorno.
Rividi il regista, questa volta da vicino, a New York quando venne per la grande retrospettiva che il MoMA gli dedicò nel 2010. Era già malato e faceva fatica a muoversi. Aveva pudore a mostrarsi così e preferiva che la gente lo vedesse già seduto. Eravamo a pranzo a casa di un amico e il Maestro discuteva con piacere e senza reticenze, sempre con quella erre parmigiana che rendeva inconfondibile la sua parlata.

L’ultima volta che lo vidi fu quattro anni fa al Teatro Regio di Parma, dove cinquant’anni prima aveva girato una scena memorabile di “Prima della Rivoluzione”. Era la cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa da parte dell’Università di Parma. Bertolucci, infatti, non si era mai laureato e l’università di Parma lo aiutò così ad adempiere alla promessa fatta al padre, il grande poeta Attilio Bertolucci. Il maestro, rivestito della toga scarlatta e della mozzetta di ermellino, sembrava un cardinale, di quelli astuti, ma bonari. Quello cerimonia solenne, voluta e orchestrata da Michele Guerra, aveva riconciliato Bertolucci con Parma, la sua città natale con cui ebbe sempre un rapporto complicato. Ma mi sembrava che l’avesse riconciliato soprattutto con la sua infermità: il neo-dottore non aveva più pudore di mostrare le conseguenze della malattia che gli aveva limitato i movimenti e solcava il palco del Regio sulla sua sedia a rotelle con nonchalance regale.
Bertolucci aveva spesso dichiarato che quando girava un film si trovava come in uno stato di oscurità e il Prof. Guerra nella sua laudatio aveva suggerito che in quei momenti era, forse “in cerca del mistero”. E a me piace ricordarlo così anche oggi, dopo la sua morte: un uomo in cerca del Mistero.