Un paio di sere prima che si abbattesse su Manhattan la gigantesca bufera di neve di gennaio, mentre la venerabile Metropolitan Opera House esibiva al Lincoln Center di New York – forse il più grande complesso musico-teatrale del pianeta – la sua ultima produzione dell’accoppiata Cavalleria Rusticana-Pagliacci, al piano di sotto dello stesso centro, ma in un locale molto più modesto, il Rose Theater, si è riaffacciata con una rappresentazione della Tosca l’eterna sua rivale New York City Opera (anche detta NYCO), che tutti ritenevano permanentemente defunta. Questa competizione a sorpresa è stata dovuta al fatto che il giudice che si occupa della gestione fallimentare della NYCO, incominciata due anni e mezzo fa, ha permesso alla stessa una stagione teatrale di una settimana nel quadro di una riorganizzazione economica che a suo tempo potrebbe anche consentire un permanente ritorno in vita del minore dei due teatri d’opera newyorchesi, creato settant’anni fa da Fiorello La Guardia con intento divulgativo della musica lirica tra le masse.
È stato così che, con l’aiuto di qualche finanziatore privato, si è avuto un ritorno a quella salutare atmosfera di concorrenza che da decenni prevale tra i due teatri, sotto forma di un confronto tra le due produzioni in scena quella prima sera. Il risultato è stato un pareggio di punti, cioè già un successo notevolissimo per la più piccola e vulnerabile delle due compagnie.
Dal lato strettamente musicale l’esecuzione vincente è stata sicuramente quella del Metropolitan Opera House, dove, sotto la magistrale bacchetta di Fabio Luisi, la vecchia e ben riposata orchestra, il complesso corale, le voci di alcuni tra i più grandi cantanti oggi provenienti da vari angoli del mondo, come il sudcoreano Yonghoon Lee nella parte di Turiddu, il pavese baritono Ambrogio Maestri in quella di Alfio, la milanese Barbara Frittoli in quella di Nedda, hanno fornito una rievocazione perfetta dei due intramontabili spartiti della lirica verista italiana.
L’orchestra rimessa rapidamente insieme dalla NYCO sotto la guida del già internazionalmente affermato italo-americano Pacien Mazzagatti non è invece riuscita, probabilmente per impossibilità di adeguate prove, a mantenere il costante, necessario coordinamento con l’esecuzione vocale, a scapito della squisita interpretazione, nei ruoli principali, di due tra i più brillanti esordienti americani sulla scena mondiale, Kristin Sampson e James Valenti. Ma è nel settore visuale che la NYCO è riuscita a sbaragliare la sua rivale, e lo ha fatto con una spesa infinitamente più ridotta e uno stratagemma molto significativo: ha rimesso in scena i costumi e i fondali disegnati da Adolfo Hohenstein per la prima dell’opera nell’anno 1900, prendendoli in prestito dal teatro dell’Opera, già Costanzi, di Roma.
Il Met, grazie allo scenografo scozzese di assoluta avanguardia Sir David McVicar ha allestito la più monotona e funerea versione della Cavalleria mai apparsa su una qualsiasi scena mondiale, versione animata soltanto da un continuo trascinio di sedie sulla famosa pedana rotante dell’immensa ribalta del teatro, tale che un ignaro avrebbe creduto di assistere al dramma assurdista di Ionescu Les chaises piuttosto che al focoso racconto di Mascagni e di Verga.
“L’aspetto essenziale di questa Cavalleria è stato la pedana rotante su cui i personaggi vagavano lentamente, alla volta di nulla”, è stato l’unico commento del più rispettato critico dell’opera newyorchese, Tommasini del New York Times. Il fatto che lo stesso McVicar abbia poi portato in scena, per l’opera di Leoncavallo, un autotreno, in un divertentissimo quanto fragoroso insieme, non è bastato a compensare l’incomprensibile aberrazione dell’atto precedente. L’episodio, se è costato qualcosa alla pazienza di un pubblico pagante, dovrebbe costituire un’esperienza positiva in materia sia artistica che di amministrazione, sia per il general manager del Met, Peter Gelb, che per il commissario giudiziario da cui dipenderà il definitivo ritorno in scena di una NYCO creata a suo tempo anche nell’intento di mantenere in buona e competitiva forma l’opera americana.