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September 12, 2017
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E tu in che lingua pensi? Con quella degli affari… di cuore!

Come stato d'animo e sentimenti influenzano i pensieri di chi parla più lingue

Filomena Fuduli SorrentinobyFilomena Fuduli Sorrentino
E tu in che lingua pensi? Con quella degli affari… di cuore!

Immagine di Nevit Dilmen

Time: 5 mins read

Alle persone bilingue è spesso chiesto in quale lingua pensano e quando rispondono di pensare in una lingua invece che in un’altra, si crede che quella sia la loro lingua più forte, quella che domina il loro linguaggio interiore. Anche i miei studenti mi chiedono se penso in inglese o in Italiano, oppure in spagnolo. A loro rispondo in modo logico, spiegando che dipende da cosa o a chi io stia pensando. L’inglese per me è la lingua intellettuale ed è più distaccata dalle mie emozioni personali, quindi mi aiuta a riflettere meglio e prendere decisioni logiche e con un certo distacco emotivo, mentre la mia lingua madre, l’italiano, è per me la lingua dei sentimenti e del cuore, perciò, molto più emotiva.

Ovviamente, a volte non ho idea in quale lingua penso, e ammetto che si può pensare in entrambe lingue, e anche in tre lingue, ma di sicuro pensando in lingue alternate si creano confusioni mentali, quindi non si pensa in modo logico e chiaro. Per esempio: se vado a fare una passeggiata e vedo qualcosa o qualcuno che mi ricorda la mia infanzia penso in italiano, ma se lavoro o faccio ricerche è facile per me pensare in inglese perché ho studiato più in inglese che in italiano. A parte questo, penso in inglese quando sono ad un appuntamento di lavoro, dove so che dovrò parlare in inglese, e anche per sentirmi sicura e preparata prima di parlare. Non credo di essere l’unica a non sapere in quale lingua penso, questo succede a molti, specie a chi è stato abituato a parlare due o tre lingue in famiglia. Il pensiero linguistico è un fenomeno legato ai nostri meccanismi cerebrali che ci aiuta a pensare in lingue diverse a secondo i luoghi e le circostanze, o agli interlocutori.

Parlando tre lingue diventa ancora più complesso, ma la terza lingua diventa la meno usata anche nei pensieri, e questo significa che si è anche meno fluente delle altre due lingue. Tuttavia, quando insegno lo spagnolo se non sto attenta alcune parole le esprimo in italiano e devo fare una pausa di alcuni secondi per trovare la traduzione corretta dei termini, come succede con il computer quando si blocca e si deve aspettare affinché riprenda a funzionare. Essendo insegnante parlo di insegnamento e di classi, ma succede anche sul campo del lavoro delle altre professioni, ed è facile abituarsi a pensare in più di una lingua a seconda la situazione e lo stato d’animo in qualunque luogo. Ma questo è vero per tutti o solo per me?

Gli scienziati cognitivi Steven Pinker e Jerry Fodor, affermano che il pensiero si verifica in un primo momento in “visione mentale”, e le rappresentazioni pensate vengono poi trasformate in parole, italiane, inglesi, spagnole, o di altre lingue. Secondo questi scienziati il pensiero esiste indipendentemente dal linguaggio. Comunque,  su questa ipotesi linguisti e filosofi non hanno ancora trovato un accordo, anche se molti filosofi e psicologi hanno riconosciuto che il pensiero può essere parzialmente visivo o coinvolgere concetti non linguistici. Questo perché la lingua interviene a una fase successiva esprimendo in parole il discorso visualizzato mentalmente. Pertanto, quando i bilingui guidano, passeggiano, o lavorano, i loro pensieri possono essere in una lingua o in un’altra.

Ma allora perché crediamo di pensare in un linguaggio specifico? La linguista Aneta Pavlenko, definisce l’ipotesi dell’autocomposizione silenziosa; un’attività mentale che si svolge in un codice linguistico rivolta a sé stessi. Per esempio, se io dovessi pensare a qualcosa da dire a un amico/a americano/a dopo la fase prelinguistica penserei in inglese per parlargli in inglese. Se dovessi pensare ad una lista di acquisti penserei in italiano anche se vivo in una paese di lingua inglese. Se dovessi pensare a quello che un collega mi ha detto l’altro giorno penserei nella lingua che il collega ha usato quando abbiamo parlato. A parte tutto questo, alcuni fattori che governano la scelta linguistica nel discorso interiore sono: la lingua dominante (prima lingua), quando e dove la lingua è stata acquisita o imparata, il livello di conoscenza della lingua o delle lingue, la frequenza dell’uso della lingua in paragone all’altra, la vita sociale e ambiente lavorativo, e le persone con cui si parla di più.

Le cose sono diverse quando sognano? Non proprio, si può sognare usando una lingua o un’altra, o entrambe le lingue. Secondo gli scienziati quasi tutti i bilingui e trilingue possono sognare in una o nell’altra lingua a secondo del sogno. Quindi, la scelta involontaria si basa alla situazione, e/o alla persona che si sogna. Un aspetto interessante dei sogni nei bilingui è che alcuni affermano di essere fluenti nel sogno in quella lingua che effettivamente non parlano bene. I sogni sono proprio questo, desiderio di imparare a parlar bene e possono fare miracoli alla propria competenza linguistica quando si studia una specifica lingua.

Le lingue cambiano e si evolvono, e nella società multiculturale di oggi spesso si inventano anche delle parole, unendo verbi inglesi con quelli italiani oppure con quelli spagnoli. Un esempio sono le lingue create dagli immigrati, come l’italianese e  lo Spanglish, termini con spesso una connotazione dispregiativa perché nonostante viviamo in un’epoca dove ci sono molte opportunità per studiare e migliorarsi, queste linguaggi fanno riferimento alla classe sociale di immigrati che non parlavano o non parlano l’inglese corretto. Tuttavia vivendo a New York da quarant’anni, mi accorgo che ancor oggi continuano ad esistere termini inventati o innestati a vocaboli stranieri, con la logica di scegliere parole che suonano meglio oppure per crearne più divertenti, o per facilitare la comunicazione tra persone di lingue diverse.

Parlando di quando mi sono trasferita a New York, ho notato un altro interessante particolare sull’emotività linguistica che mi ha fatto rimanere molto sorpresa; le persone americane esprimono il loro amore per l’uno e l’altro con disinvoltura e molto più spesso in paragone agli italiani. La capacità degli americani e quella di dire grandi cose in modo semplice e molto casuale, e loro esprimono anche i loro sentimenti con semplicità. Io ritengo che alcune parole italiane abbiano troppo peso in paragone alle traduzioni degli stessi termini in inglese. Per esempio: “amore” e “love” sono due parole simili ma con connotazione molto diverse, anche se qualsiasi dizionario inglese-italiano ci convince che significano esattamente la stessa cosa, ma per le nostre menti non sono le stesse, perché hanno connotazione diversa.

Per concludere, la lingua in cui si pensa varia da persona a persona. Gli italiani che si trovano da molto tempo fuori dall’Italia e parlano prevalentemente e perfettamente l’idioma del paese che li ospita finiscono per pensare in quella lingua. La nostra mente è un miscuglio di pensieri, e quindi possiamo pensare in più di una lingua, anche se si crede che un idioma lo si parla bene solo quando si riesce a pensare in quella lingua, mentre gli psicologi ci dicono che esiste la lingua del cuore e se si sanno parlare due o tre lingue, si pensa con quella del cuore.

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Filomena Fuduli Sorrentino

Filomena Fuduli Sorrentino

Calabrese e appassionata per l’insegnamento delle lingue, dal 1983 vivo nel Long Island, NY. Laureata alla SUNY con un AAS e in lingue alla NYU con un BS e un MA, sono abilitata dallo Stato di New York all’insegnamento K-12 in italiano, ESL e spagnolo. Insegno dal 2003 lingua e cultura italiane nelle università come adjunct professor e come docente di ruolo in una scuola media del Newburgh ECSD. Nel mio tempo libero amo scrivere, leggere, cucinare, ascoltare musica, viaggiare, visitare i centri storici (soprattuto italiani) e creare cose nuove. Tra le mie passioni ci sono la moda, il mare e la natura.

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