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September 6, 2017
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Del presidente Trump mi impipo, sono gli americani che mi spaventano

I presidenti vengono e se ne vanno. Il comportamento di certi americani però sta diventando una costante e mette un po' di malinconia

Valter VecelliobyValter Vecellio
Del presidente Trump mi impipo, sono gli americani che mi spaventano
Time: 4 mins read

Da qui, da questa Italia che tanto, in passato, ha fatto per il mondo, e ben poco, oggi, ha da insegnare e proporre, osservo quello che accade in quella che è stata, è, e continuerà – voglio credere – ad essere la più grande democrazia, il paese della libertà e delle opportunità. Quel luogo dove è ancora possibile credere nel titolo dell’editoriale di Horace Greeley, pubblicato sul “New York Tribune” del 13 luglio 1865: “Go West young man, and grow up with the country”.

Al tempo stesso, come negare che ti afferra un senso di malinconia e di inquietudine: non è tanto per quello che dice e che fa il presidente Donald Trump. I presidenti vengono, ma per fortuna, se ne vanno; come è entrato alla Casa Bianca, fra qualche anno se ne andrà, e potrà trascorrere il suo tempo nella sua Mar-a-Lago in Florida, o nel suo golf resort a Bedminster, in New Jersey, o ovunque gli piacerà giocare con twitter e “You’re fired”. No: del presidente Trump, tutto sommato, mi impipo. È l’America che lo ha eletto, ben sapendo chi era, cosa voleva, avendo ben udito le volgarità che era capace di dire, e le approvava (e approva), le ha applaudite (e le applaude); è questa America, che mette tristezza, malinconia. L’America intollerante che vede nel generale Nathan B. Forrest un eroe, e apprezza le idee (si fa per dire) di William J. Simmons; ma anche quell’America che butta giù le statue… Ma a New York, il sindaco Bill De Blasio non ha nulla di meglio da fare e pensare che inserire il monumento a Colombo a Columbus Circle nell’elenco di quelli da abbattere perché “discriminatorio”? C’è nulla di meglio da fare (e pensare) che nominare una commissione e darle 90 giorni di tempo per esaminare quali opere in città possono istigare all’odio, alla divisione, al razzismo e all’antisemitismo?

Vorrei, piuttosto, che ci si prodigasse per far conoscere i versi di Emma Lazarus incisi nel piedistallo della Statua della Libertà:

“Give me your tired, your poor,
Your huddled masses yearning to breathe free,
The wretched refuse of your teeming shore.
Send these, the homeless, tempest-tossed, to me:
I lift my lamp beside the golden door
”.

Vorrei, piuttosto, che ci si prodigasse perché non si smarrisca la memoria di quello che sancisce forse il più bel testo di “Dichiarazione d’indipendenza”; pur datato 4 luglio 1776 è immortale:

“Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto a un altro popolo e assuma tra le potenze della terra lo stato di potenza separata e uguale a cui le Leggi della Natura e del Dio della Natura gli danno diritto, un conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che quel popolo dichiari le ragioni per cui è costretto alla secessione.

Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità...”.

La Columbus Statue a Columbus Circle a New York

Quanti sanno che per quella Dichiarazione dobbiamo ringraziare Thomas Jefferson, John Adams, Benjamin Franklin Robert R. Livingston e Roger Sherman? E si dovrebbe essere tutti molto più grati ai 56 firmatari: Josiah Bartlett, William Whipple, Matthew Thornton (New Hamhsire); Samuel Adams, John Adams, John Hancock, Robert Treat Paine, Elbridge Gerry (Massachusetts); Stephen Hopkins, William Ellery (Rhode Island); Roger Sherman, Samuel Huntington, William Williams, Oliver Wolcott (Connecticut); William Floyd, Philip Livingston, Francis Lewis, Lewis Morris (New York); Richard Stockton, John Witherspoon, Francis Hopkinson, John Hart, Abraham Clark (New Jersey); Robert Morris, Benjamin Rush, Benjamin Frankin, John Morton, George Clymer, James Smith, George Taylor, James Wilson, George Ross (Pennsylvania); George Read, Caesar Rodney, Thomas McKean (Delaware); Samuel Chase, William Paca, Thomas Stone, Charles Carroll (Maryand); George Wythe, Richard Henry Lee, Thomas Jefferson, Benjamin Harrison, Thomas Nelson Jr., Francis Lightfoot Lee, Carter Braxton (Virginia); William Hooper, Joseph Hewes, John Penn (Carolina del Nord); Edward Rutledge, Thomas Heyward Jr., Thomas Lynch Jr., Arthur Middleton (Carolina del Sud); Button Gwinnett, Lyman Hall, George Walton (Georgia).

Dovrebbero esserci veri e propri “pellegrinaggi” laici alla “Roccia di Plymouth”, dove secondo la tradizione sono sbarcati William Bradford e i pellegrini del “Mayflower”, che fondarono la “Colonia di Plynouth sulla costa di quelli che sarebbero diventanti gli Stati Uniti d’America. Una leggenda, probabilmente, la storia che si attribuisce a quella roccia. Però Alexis de Tocqueville nel 1835 ne scrive così: “Questa roccia è diventata oggetto di venerazione negli Stati Uniti. Ne ho visti frammenti venire conservati con cura in diverse città dell’Unione. Questo fatto non dimostra forse come tutto il potere e la grandezza dell’uomo risieda nella sua anima? Qui c’è una pietra che i piedi di pochi esiliati hanno calpestato per un attimo; e la pietra diventa famosa; viene trattata come un tesoro da una grande nazione; anche la sua polvere viene considerata una reliquia”.

Infine andrebbe scolpito nella nostra memoria l’immortale monologo di Shylock nel terzo atto del “Mercante di Venezia” di William Shakespeare:

“Egli m’ha vilipeso in tutti i modi, e una volta m’ha impedito di concludere un affare per un milione. Ha goduto per le mie perdite e ha dileggiato i miei guadagni, ha disprezzato la mia razza, ha intralciato i miei buoni affari, ha allontanato da me i miei buoni amici e mi ha aizzato contro i nemici! E tutto questo per quale ragione? Perché sono ebreo! E dunque? Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? Non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano? Non viene ferito forse dalle stesse armi? Non è soggetto alle sue stesse malattie? Non è curato e guarito dagli stessi rimedi? E non è infine scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate che un cristiano? Se ci pungete non versiamo sangue, forse? E se ci fate il solletico non ci mettiamo forse a ridere? Se ci avvelenate, non moriamo?…”.

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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