Nel 2016 ha diretto uno studio che per la prima volta ha identificato due sorgenti celesti che potrebbero essere gli antenati dei “buchi neri super massicci”, misteriosi oggetti presenti al centro di ogni galassia. Dopo quella clamorosa osservazione che ha fatto il giro del mondo, Fabio Pacucci si è trasferito alla Yale University dove al Department of Physics si occupa ancora di buchi neri primordiali, collaborando con équipe di ricerca dalla Columbia University di New York fino ad Harvard. Per lui, pugliese trapiantato prima a Roma dove si è laureato in Fisica a La Sapienza e poi a Pisa per un dottorato alla Normale, gli Stati Uniti erano già una seconda casa: il viaggio cominciato a fine 2016 – e non ancora concluso – è stato il quinto in pochi anni. Il primo volo transoceanico, racconta il 29enne astrofisico, lo ha fatto grazie a ISSNAF, la fondazione che riunisce gli scienziati italiani che lavorano nel Nord America.

In che modo ISSNAF ti ha fatto conoscere gli Usa?
“È avvenuto nel 2012, grazie a un programma congiunto fra ISSNAF e INAF, l’istituto nazionale di astrofisica, che offriva due borse di studio negli Stati Uniti a studenti delle lauree magistrali. Vinsi la borsa e volai a Boston per due mesi, lavorando alla Harvard University nel settore della dinamica dei sistemi planetari. Fare ricerca lì mi ha aperto un mondo, e sono molto grato a ISSNAF per avermi dato la possibilità di vedere per la prima volta come funzionano le cose da questa parte dell’Atlantico. Durante la laurea magistrale è difficile per uno studente trovare i fondi per un viaggio così lungo. È anche grazie a quel primo soggiorno che, dieci giorni dopo aver concluso il dottorato alla Normale di Pisa, nel 2016, ho preso servizio a Yale dove mi trovo ora, preferendo gli Usa alla Germania e al Regno Unito, altri Paesi dove avrei potuto proseguire la carriera accademica”.
Di che cosa ti stai occupando?
“Sono un astrofisico teorico: faccio dei calcoli basandomi sulle leggi della Fisica, e formulo delle teorie cercando di spiegare quello che vediamo nello spazio, al telescopio. L’astrofisica è molto diversa dalle altre scienze. Infatti, non è possibile eseguire degli esperimenti, perché l’oggetto del nostro studio è troppo distante, irraggiungibile fisicamente: possiamo solo compiere delle osservazioni. Io in particolare mi occupo di studiare i buchi neri e di capire come si sono formati. In un certo senso noi astrofisici siamo come degli archeologi: studiamo il passato remoto, perché quando osserviamo degli oggetti celesti con il telescopio, vediamo un’immagine antichissima, che ci arriva dopo miliardi di anni”.
Che tipo di buchi neri studi?
“Studio la formazione dei buchi neri super massicci, ovvero quei buchi neri che si trovano al centro di ogni galassia. Ognuno di essi pesa milioni o miliardi di volte il Sole, e si pensa che abbiano contribuito in modo fondamentale alla formazione delle galassie. I buchi neri si definiscono tali perché sono oggetti da cui nulla può sfuggire, neppure la luce: la velocità di fuga necessaria ad allontanarsi da un buco nero è superiore alla velocità della luce, 300mila chilometri al secondo. Per fare un paragone, la velocità di fuga dalla Terra è solo di 11 chilometri al secondo. La formazione dei primi buchi neri super massicci risale a 13 miliardi di anni fa, che è quasi l’età dell’Universo, che di miliardi di anni ne ha circa 14”.
In che cosa consiste la scoperta che ha reso celebri te e il team di cui fai parte nel 2016?
“Il mio lavoro consiste nel predire le caratteristiche che permettono di riconoscere al telescopio buchi neri antichissimi. Sono chiamati “black hole seeds”, o “buchi neri primordiali”, e sono la prima popolazione di buchi neri che si è formata nell’Universo. Attraverso una sorta d’identikit cerchiamo di riconoscere questi buchi neri primordiali nella miriade di oggetti che popolano il cielo. Il fine ultimo consiste nella loro identificazione e nel comprendere quale ruolo abbiano avuto nella formazione delle galassie, le strutture fondamentali che costituiscono l’Universo intero. Lo scorso anno, con un team di ricerca della Scuola Normale Superiore di Pisa e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica di Roma, utilizzando i telescopi spaziali della NASA Hubble e Chandra abbiamo individuato tre oggetti, ai confini del cosmo, che hanno caratteristiche simili a quelle che prediciamo debbano avere i buchi neri primordiali. Nonostante ulteriori osservazioni siano necessarie per comprendere meglio la loro natura, potremmo aver compiuto un passo avanti nell’identificazione degli antenati dei buchi neri attuali”.
In che modo prosegue la ricerca, fra Usa e Italia?
“Nel 2018 sarà lanciato in orbita un nuovo telescopio, il James Webb Space Telescope (JWST), molto più potente di Hubble. Grazie alle nuove informazioni che raccoglieremo utilizzando sia Hubble che JWST contiamo di aumentare le nostre conoscenze e di scoprire nuovi buchi neri primordiali. Nonostante ora lavori negli Usa, la scoperta del 2016 è stata fondamentalmente italiana e la collaborazione con l’Italia continua con ancora più forza. Infatti, ogni realtà scientifica ha dei punti di forza caratteristici che dobbiamo sfruttare al meglio per avanzare la conoscenza dell’Universo. Insomma, il ponte fra Usa e Italia continua anche per la ricerca dei primi buchi neri nell’Universo”.