Se siete in America, il 17 e il 24 febbraio sera non prendete impegni: c’è un pezzo della vostra storia in prima visione TV. Diviso in quattro episodi, due per serata, dalle 9.00 alle 11.00 ET, andrà in onda su PBS The Italian Americans, l’atteso documentario di John Maggio tratto dall’omonimo libro di Maria Laurino e narrato dalla voce di Stanley Tucci. A New York il documentario sarà proiettato in anteprima martedì 10, nel corso di una serata speciale alla NYU.
L’epopea italiana in America, dai tempi dei primi sbarchi fino al successo e al riconoscimento nei più alti ruoli della società americana, si snoda attraverso i quattro capitoli di cui è composta l’opera: La Famiglia (1890-1910); Becoming Americans (1910-1930); Loyal Americans (1930-1945); The American Dream (1945-Today).
Un’opera ambiziosa nei contenuti quanto negli intenti, godibile ed educativa nel risultato. Attraverso materiali d’archivio e interviste con studiosi e italo-americani eccellenti, tra cui John Turturro, Tony Bennett, Nancy Pelosi, Gay Talese e Antonin Scalia, il documentario ricostruisce la storia della formazione dell’identità italo americana e del contributo italiano alla costruzione della società americana contemporanea. Da New Orleans a New York, dalla California alla Pennsylvania, la storia dei nostri connazionali che hanno messo radici oltre Atlantico si intreccia con la storia americana, tra desiderio di integrazione e lo sforzo di conservare gli ideali e i valori fondativi della cultura d’origine. Uno scontro tra culture a lieto fine che si risolve in quel melting pot unico che è la cultura a stelle e strisce.
Tutto cominciò con Garibaldi
John Maggio sceglie l’Unità d’Italia come punto di partenza per raccontare come, nel momento stesso in cui faticosamente nasceva una patria e un’identità, si creavano le condizioni per centinaia di migliaia di persone (che presto diventarono milioni) per partire alla ricerca di condizioni di vita migliori oltreoceano. Approfondita (e forse per alcuni nuova) l’analisi che vede in quell’unità da molti incompresa, quando non vissuta come vera e propria violenza, le radici di un atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’autorità (che più sa di te, più può tassarti) che sarebbe alle origini di quella tendenza al silenzio e alla chiusura rispetto all’esterno tipica delle famiglie e delle comunità italiane che si insediarono in America a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento.
Il documentario ripercorre poi le varie fasi storiche di un lungo processo di integrazione che, per riuscire, dovette abbattere pregiudizi e mitigare reali differenze. All’arrivo sulle coste americane, i primi immigrati italiani venivano schedati come “dark”, sotto la voce “razza” nei documenti di identificazione alla dogana. Considerati carne da lavoro, gli immigrati si riversavano in enclave povere, sporche e affollate mentre contribuivano, con la propria fatica, a costruire l’America.
Una questione politica
Guardando a ognuna delle fasi della storia americana attraverso un occhio italo americano, il documentario mostra le difficoltà e le contraddizioni di un’identità che si andava costruendo sul campo, empiricamente. Ognuna delle diverse ondate migratorie che arrivarono a portare negli USA più di 5.5 milioni di italiani ebbe i suoi momenti di buio. Il documentario racconta per esempio, dei drammatici fatti di New Orleans, quando gli italiani, considerati rivoltosi, furono accusati di aver ammazzato il capo della polizia (un delitto mai risolto) e trucidati dalla popolazione inferocita. Era il 1891 e fu la prima volta che la parola mafia comparve sulla stampa americana per spiegare quel fenomeno di isolamento e omertà che destava tanto sospetto tra gli americani. Alcuni decenni dopo, un simile destino toccò a Sacco e Vanzetti, accusati di aver ucciso una guardia e un contabile, e di fatto usati come capro espiatorio di fronte ai crescenti timori della società americana rispetto alla diffusione di idee considerate rivoluzionarie. L’altra faccia della medaglia fu il contributo italiano alla nascita dei movimenti per i diritti dei lavoratori, la diffusione del pensiero liberale e anarchico, l’approdo in politica.

Fiorello La Guardia, primo sindaco italo americano di New York
Proprio la politica segna alcune importanti pagine del processo di integrazione. Il documentario sottolinea molto bene l’importanza della figura di Fiorello La Guardia, il primo sindaco di New York italo americano che riuscì ad abbattere le tradizionali barriere di diffidenza delle comunità italiane, fino ad allora rimaste ai margini del tessuto sociale, nei confronti dell’autorità e della politica, connettendole con le istituzioni e rinforzandone allo stesso tempo il senso di collettività. Fu così che iniziò ad emergere quello che sarebbe poi diventato uno dei blocchi elettorali più forti e strategici per la politica americana.
Quando in Italia dilagava il fascismo del primo Mussolini, i cuori degli italoamericani si infervoravano di patriottismo, incoraggiati da una generale simpatia della società americana per il nuovo leader italico. Quando l’Italia diventò nazione nemica, tuttavia, le bandiere tricolore e le foto del duce sparirono dalle case degli italiani, decisi ad affermare, al di là di ogni dubbio, la loro fedeltà agli USA. Sforzo che tuttavia a nulla servì quando gli italiani vennero classificati come enemy aliens e, quelli di loro che non avevano la cittadinanza americana (per lo più persone anziane, tra cui i genitori del popolarissimo giocatore di baseball Joe Di Maggio, sottolinea il documentario), confinati in campi di concentramento.
Prova di fedeltà
Nel frattempo tanti di quei giovani cittadini americani il cui cognome finiva per vocale partivano per andare in guerra, a combattere in Europa, a volte proprio in Italia. Fu allora che la loro fedeltà all’America venne messa alla prova. Ne tornarono vittoriosi: il loro valore era stato certificato e il loro impegno contribuì a cancellare l’onta del marchio di enemy aliens, tanto che gli USA decisero di togliere gli italiani dalla lista. Il documentario racconta molto bene l’importanza della Seconda guerra mondiale come momento cruciale per la definitiva accettazione degli italiani all’interno della società americana, con gli stessi diritti e gli stessi doveri di chiunque altro. I decenni successivi, però, segnati dall’ampia diffusione della criminalità organizzata che si stava strutturando in un complesso sistema di famiglie, non furono tutti radiosi per gli italiani d’America.
Storie di successo
Tra alti e bassi, gli italo americani riuscirono comunque ad arrivare in posizioni importanti in ogni campo. Partendo da fine Ottocento e arrivando (quasi) ai giorni nostri, The Italian Americans mette in fila una serie di personaggi cruciali: Amedeo Giannini, fondatore della Banca d’Italia in seguito trasformata in Bank of America; Generoso Pope, controverso imprenditore ed editore; l’indimenticabile Frank Sinatra e le altre voci dal sapore italiano che furono tra le prime vere pop star americane; il giudice della corte suprema Antonin Scalia che incarna (come dice lui stesso nel documentario) lo spirito di rivalsa di una comunità schiacciata dalla cattiva reputazione legata alla mafia; Mario Cuomo di cui il documentario attribuisce la rinuncia a candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti alla certezza che le sue origini italiane sarebbero diventate pretesto per accusarlo di collusioni con la criminalità.

L’attore italo americano John Turturro nel documentario racconta alcuni episodi legati alla sua famiglia
Le voci dei tanti protagonisti che hanno contribuito a creare l’affresco italo americano di The Italian Americans, aggiungono un elemento di calore alla storia: personaggi come lo scrittore Gay Talese e l’attore John Turturro ripercorrono le varie fasi dell’epopea immigratoria attraverso ricordi personali e pagine di storia familiare di impareggiabile valore.
Nel complesso The Italian Americans fa un buon lavoro nel ricostruire una storia che è rimasta spesso vittima di una mitologia semplificatoria. Se una pecca c’è, è quella di avere un taglio a tratti un poco troppo pedagogico che, tuttavia, è forse necessario, vista la natura dell’impresa. Eppure anche quest’opera non è esente da semplificazioni. Diversi sono i passaggi che avrebbero richiesto un maggiore approfondimento. Premettendo che è evidente che il formato televisivo non consentisse di dilungarsi oltre le quattro ore, vorrei soffermarmi su qualche punto che, a mio avviso, meritava un maggiore approfondimento o un approccio diverso.
Un’ossessione di nome Puzo
E qui apro, brevemente e inevitabilmente, il capitolo mafia. In un’intervista a John Maggio leggo che l’autore avrebbe avuto difficoltà a reperire fondi per il film proprio perché si è rifiutato di omettere quella vergognosa parte della storia degli italiani in America. Ha senso quindi pensare che Maggio non abbiamo voluto indugiare troppo su quella pagina. E tuttavia mi sembra necessario notare che, finchè quella pagina non la rivisiteremo noi stessi, dandone una nostra versione, abbiamo poco da lamentarci se l’unica versione disponibile nella cultura di massa americana sia quella glamourizzata alla Padrino o alla Sopranos maniera. Negare la realtà non ha mai riscritto la storia: raccontarla con onestà, coraggio e serietà, invece, potrebbe.
Questa incapacità di proporre un’altra versione della storia si collega, a mio avviso, a un’altra pecca del documentario che è anche – forse – della società italo americana. Pur se ricco di riferimenti ad italo americani importanti che hanno contribuito alla creazione della società americana, il documentario sembra riflettere l’idea di successo di cui parte della società italo americana è stata spesso accusata di essere vittima. Cosa decreta il successo? La ricchezza economica, il potere politico, la popolarità mediatica. Ma nel quadro c’è un grande assente: la cultura. In The Italian Americans non si parla di un artista, uno scienziato, un architetto e, cosa a mio avviso ancora più grave, uno scrittore, se non il famigerato Mario Puzo, autore de Il padrino (sulla cui celebre scena dell’“offerta che non potrà rifiutare”, tra l’altro, si apre l’intro di tutti i quattro capitoli del documentario). Di lui si dice che, per fame di soldi e di successo, di fatto finì per svendere la storia degli italo americani per una leggenda di facile presa. Tra l’immagine della mafia in America e Il padrino viene, ancora una volta, creato un nesso di diretta causalità.
Pagine dimenticate
Personalmente il romanzo di Puzo quanto il film di Coppola non mi offendono. E non credo sia solo perché non sono italo americana, visto che anche Turturro e Talese nel documentario non usano che parole d’elogio nei confronti del film la cui forza, secondo entrambi, era soprattutto nella capacità di portare sullo schermo, per la prima volta, le dinamiche e i valori della famiglia tradizionale italo americana. Ma non voglio di certo negare a nessuno il diritto di sentirsi offeso da quella storia e da quel film. Tuttavia, se quella storia a qualcuno appare falsa o parziale, se il libro di Puzo è la faccia popolare e mitizzata dell’epopea italo americana, allora è importante che altre espressioni di quella epopea, altre versioni dei fatti, vengano mostrare e raccontate. E la letteratura americana ne è piena, nei libri dei tanti autori il cui cognome finisce per vocale e di cui il documentario non fa minimamente menzione: Ferlinghetti, DeLillo, Fante, Di Donato, Barolini, tanto per citarne alcuni.
E proprio dalla letteratura viene un esempio di un’altra storia che il documentario si dimentica di raccontare. Penso a Pascal D’Angelo che, pur avendo prodotto opere da molti giudicate di scarso interesse letterario, ha offerto un punto di vista unico sull’esperienza immigratoria dei tanti che arrivarono in America per fuggire alla miseria e si ritrovarono precipitati in una miseria ancora più nera. The Italian Americans, nella sua natura celebrativa e a tratti apologetica, si dimentica di raccontare una parte della storia, quella che, più di ogni altra, oggi potrebbe assumere un carattere universale. Quando alcuni degli italiani più poveri arrivarono dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Basilicata, dalla Campania o, come Pascal D’Angelo, dall’Abruzzo, si trovarono incastrati in un regime di schiavitù di fatto: portati a lavorare in cantieri o miniere fuori città, in zone isolate, spesso rese ancora più inaccessibili dalle condizioni meteorologiche, erano costretti a mansioni e orari di lavoro disumani, esposti a ogni tipo di rischio, costretti a vivere in strutture di proprietà delle compagnie per cui lavoravano cui spesso dovevano pagare una pigione, obbligati ad acquistare i generi di prima necessità dall’unica bottega disponibile nel campo di lavoro, anche questa di proprietà della compagnia che imponeva prezzi da usura, tanto che per anni i lavoratori non riuscivano a risparmiare abbastanza da potersene andare.
L’universalità dell’esperienza italiana
Questa è una storia che in The Italian Americans non viene raccontata. Ed è, a mio avviso, un’opportunità persa. Non soltanto perché, per quanto la storia sia ben nota, ci sono ancora americani che la ignorano (che si stia cercando di non scuoterle troppo queste coscienze americane?); e non soltanto perché quella storia avrebbe potuto (e dovuto) far riflettere gli italiani di oggi, che non sono privi di colpe; ma soprattutto perché, attraverso quella storia che tristemente si ripete di secolo in secolo e di continente in continente, la disumana tragedia degli immigrati italiani avrebbe potuto assumere un carattere di universalità e parlare all’intero genere umano o almeno alla società occidentale che troppo spesso schiaccia nei suoi meccanismi di crescita i deboli di turno, che vengano dal Sud dell’Italia o dal Sud America.
L’opportunità persa di universalizzare il discorso si riflette in una sostanziale incertezza su chi siano i destinatari di The Italian Americans. A chi parla questo documentario? Per quanto gli italo americani costituiscano un’appetibile fetta di pubblico televisivo (ha origini italiane il 5.9% della popolazione americana) e allo stesso tempo potrebbero avere bisogno di un’iniezione di orgoglio e una rinfrescata sulle proprie origini, non voglio pensare che The Italian Americans si rivolga soltanto agli italo americani –sarebbe tristemente autoreferenziale, ammesso che ci sia chiarezza su cosa significhi essere italoamericani (è una mera questione genetica da definire in termini di quanti antenati italiani si hanno o è un fatto di identità, di appartenenza culturale, di consapevolezza delle proprie radici?).
Che il documentario parli allora agli americani, nel tentativo di abbattere finalmente ogni barriera di pregiudizio e sfiducia mostrando loro che la storia degli italo americani è, al cento per cento, una storia americana, che è, anzi, La storia d’America, di un paese nato sul duro lavoro e arrivato al successo attraverso l’impegno e il coinvolgimento sociale? Può darsi, ma nell’incredibile melting pot americano sembra esserci un’ampia accettazione di questa narrativa: che gli italiani, il più folto gruppo di immigrati ai tempi dell’accelerata dell’economia statunitense, abbiano contribuito a fare l’America, si studia sui libri di scuola. Può valere la pena rinforzare il concetto ma forse quelli che più di chiunque altro avrebbero da imparare dalla visione di The Italian Americans sono gli italiani stessi, che di quello che è successo ai loro connazionali una volta saliti su quelle navi, sanno solo il poco che la mitologia del successo dello zio d’America ha lasciato passare.
Qui e oltreoceano, c’è tanto da imparare e ancora di più da capire. Per quanto mi riguarda, guardando The Italian Americans, ho appreso una cosa che non sapevo e che non può che riempirmi di italico orgoglio femminile: la famosa icona di Rosie the Riveter, simbolo dell’emancipazione femminile durante la Seconda guerra mondiale, quando le donne dovettero (e riuscirono) sostituire gli uomini nei lavori tradizionalmente maschili, fu disegnata a immagine e somiglianza di una ragazza italo americana. E che c’è di più americano di Rosie the Riveter?