“Sono onorata di competere per la presidenza degli Stati Uniti con il partito dei verdi, l’unico partito del popolo, dal popolo e per il popolo”. È con queste parole che Jill Stein ha ufficialmente accettato la nomination del Green Party, al termine della Convention di partito conclusasi sabato a Houston, in Texas.
Spunta così un’altra donna tra gli aspiranti inquilini della Casa Bianca, e quella che in altre occasioni sarebbe stata una notizia trascurabile assume quest’anno un’importanza particolare. Non è la prima volta che il nome della Stein è nell’elenco dei candidati alla presidenza.
Jill, medico laureato ad Harvard e nota da anni negli ambienti dell’attivismo ambientalista, corse sempre con i verdi nel 2012, raccogliendo un misero 0,36 % delle preferenze. Oggi però lo scenario è cambiato, e gli ultimi sondaggi la danno in media tra il 3 e il 4 %. Troppo poco per poter seriamente aspirare a sedere nello Studio Ovale, ma abbastanza per catturare l’attenzione dei media, che non a caso le hanno dedicato un interesse crescente negli ultimi tempi.
Il motivo è semplice. Di fronte a un elettorato che guarda con sospetto (e in alcuni casi con puro odio) a Hillary Clinton e Donald Trump, le candidature alternative, tra le quali figura anche quella del libertario Gary Johnson, potrebbero giocare nel 2016 un ruolo inedito, smuovendo quel tanto che basta di voti per diventare l’ago della bilancia in caso di sostanziale pareggio tra democratici e repubblicani in alcuni degli swing states.
L’episodio più vicino nel tempo nel quale un “terzo incomodo” risultò determinate per l’esito delle presidenziali (spesso citato dai commentatori) fu quello del 2000 e vide come protagonista un altro candidato verde di nome Ralph Nader, che ebbe accesso alle urne in ben 43 stati. All’epoca dello scontro tra George W. Bush e Al Gore, finito sul filo di lana, Nader conquistò poco più di 97.000 preferenze in Florida, e secondo la vulgata comune finì per consegnare la vittoria finale a Bush, che vinse in quello stato con uno scarto di appena 537 voti. Per i più maliziosi, la presenza di Nader “rubò” una parte dell’elettorato di sinistra a Gore, che vincendo in Florida avrebbe conquistato la presidenza.
Attualmente, sia i verdi sia i libertari fungono inoltre da vere e proprie “valvole di sfogo”, attraendo a sé i delusi di entrambi gli schieramenti.
E mentre Johnson è più simpatico ai repubblicani anti-Trump, la Stein attinge a piene mani da coloro che si autodefiniscono i Never-Hillary, ovvero da una parte minoritaria del movimento di Bernie Sanders rimasta orfana dopo la sconfitta alle primarie e il successivo endorsement del senatore del Vermont alla Clinton.
Al grido di “Jill not Hill”, molti di loro si sono ritrovati alla Convention di Houston a supportare la nominata dei verdi. Ad abbandonare il campo sanderiano sono stati anche personaggi di un certo rilievo fino a poco fa nel team di Bernie, come Cornel West, intellettuale afroamericano e personalità rispettata tra i progressisti americani.
A sintetizzare il sentimento imperante di una parte dell’universo della sinistra a stelle e strisce ci ha pensato proprio West, nella dichiarazione a con cui a metà luglio ha reso ufficialmente noto il proprio appoggio alla Stein: “A novembre abbiamo bisogno di cambiare. Eppure siamo legati a una scelta tra Trump, che sarebbe una catastrofe neofascista, e Clinton, un disastro neoliberista. Ecco perché sto sostenendo Jill Stein. Sono con lei – l’unica donna progressista in gara – perché abbiamo dobbiamo uscire da questo vicolo cieco. Nutro un profondo amore per il ‘fratello’ Bernie Sanders , ma non sono d’accordo con lui su Hillary Clinton. Non credo che sarebbe un ‘presidente eccezionale’ (come affermato da Bernie ndr)”.
A sentire le parole di West e le opinioni dei suoi emuli, il voto alla Stein è giustificato da una presunta equivalenza tra il tycoon e la ex Segretaria di Stato, dipinti (seppure con parole diverse) come incorreggibili reazionari.

Ma per quale motivo una frazione dei fan di Sanders è migrata proprio nel partito della Stein? È presto detto. Il Green Party of the United States ha un programma politico vicino alle posizioni del movimento di Bernie. I punti programmatici su cui batte Jill sono identici a quelli che hanno caratterizzato la campagna del senatore del Vermont: il contrasto al cambiamento climatico attraverso una conversione delle fonti energetiche, l’avversione allo strapotere della finanza e delle grandi banche, la riforma del finanziamento ai partiti, l’appoggio a politiche ultra-liberal su temi come aborto e diritti dei gay, l’espansione dello stato sociale, tanto per citare i più noti. Sull’economia, i verdi hanno coniato l’espressione “Green New Deal” (un richiamo al grande programma riformatore di Franklin Delano Roosevelt) per riassumere massicce politiche pubbliche di investimento basate su nuovi sistemi energetici “puliti”.
Se i temi sono gli stessi, le soluzioni proposte dal Green Party sono sicuramente molto più radicali. In materia di istruzione, ad esempio, i verdi chiedono la cancellazione di tutti i debiti studenteschi tout court; in politica estera e di difesa propongono un taglio drastico delle spese militari pari al 50% e la chiusura delle basi statunitensi nel mondo, mentre sulla questione palestinese si attestano su posizioni ferocemente ostili a Israele, mettendo in aperta discussione la storica alleanza tra Washington e Tel Aviv.
Insomma, idee che la Stein definisce “rivoluzionarie”, ma soggette a numerose (e spesso sensate) critiche anche da sinistra.
Conscia della compatibilità ideale con la base sanderiana, quando si è trattato di scegliere il running mate la candidata verde ha tentato di portare dalla sua la senatrice progressista Nina Turner, nota personalità del Partito democratico vicina a Sanders, ma dopo il suo rifiuto ha dovuto ripiegare sull’attivista afroamericano Ajamu Baraka, uno che negli ultimi anni ha sparato sentenze che hanno destato scandalo, arrivando a definire la marcia successiva alla strage di Charlie Hebdo come una “white power march” e criticando aspramente lo stesso Sanders, descritto come una sorta di burattino in mano ai “poteri forti”.
Se il senatore del Vermont non piace a Baraka, ha subito negli scorsi mesi un corteggiamento spudorato da parte della Stein, la quale gli ha persino proposto di entrare nel ticket verde. E di fronte a un prevedibile rifiuto di Bernie ha tentato in tutti i modi di attirare i Never-Hillary, approfittando dello scandalo delle mail rese note da wikileaks alla vigilia della Convention democratica e giocando sulle comprensibili frustrazioni dei sanderiani, soprattutto dei più giovani.
Novembre è ancora lontano, ma possiamo scommettere che nei prossimi mesi molti potrebbero essere tentati dal richiamo di Jill.