Poco prima di Pasqua mi è stato regalato – in edizione inglese – un libro di Roberto Bolaño, The Third Reich, quindi mi scuseranno i lettori se questa volta non mi occupo di una nuova uscita (del resto chi segue questa rubrica sa che ogni tanto mi prendo una pausa dall'attualità e vado alla scoperta, o riscoperta, di libri più vecchi. Mi pare logico fare così anche perché è inutile che un recensore, anzi, un lettore-recensore, faccia finta di avere letto tutto quello che è stato scritto nel passato; e se leggesse solo le novità si condannerebbe a non colmare mai le sue lacune).
Terzo Reich è un'opera giovanile dello scrittore cileno (Santiago, 1953, Barcellona, 2003), scritta nel 1989, ma ritrovata fra le carte del suo archivio solo nel 2008. Bolaño, prima di morire, l'aveva ripresa in mano e ne aveva trasferita una parte sul computer. In Italia il romanzo è uscito per Adelphi nel 2010, ben sette anni dopo la prematura scomparsa dell'autore; negli USA nel 2011 per Farrar, Straus and Giroux (NYC).
La collocazione temporale dell'opera è presto fatta: non ci sono PC, non ci sono cellulari anche se i protagonisti spesso si telefonano. Siamo, dunque, un po' prima dell'avvento del digitale e delle reti, che ci ha resi sempre connessi all'ufficio. Il tema della vacanza, caro a molti scrittori otto-novecenteschi, può ancora essere metafora di isolamento, di presa di distanza dalla realtà ordinaria, di esplorazione di sé e/o di un universo parallelo, quasi onirico. Protagonista del libro è un gioco da tavolo, Terzo Reich, simile al Risiko, ma più sofisticato, una simulazione della Seconda guerra mondiale. L'io narrante, un giovane tedesco, Udo Berger, è diventato recentemente campione nazionale di questo gioco, e sta pensando di trasformarlo nella sua professione. Tant'è che, pur essendo per la prima volta in vacanza con la sua splendida ragazza, Ingeborg, in una località marittima della Costa Brava spagnola, passa gran parte del suo tempo nella camera dell'albergo a studiare nuove strategie e a scrivere un lungo articolo per una rivista del settore.
A prima vista, siamo in presenza di un tipico nerd, anche se di successo, un personaggio che qualche anno dopo avremmo potuto vedere alle prese non con un gioco da tavolo ma con un videogame o una nuova app; oppure con una variante del giovane scrittore, totalmente assorbito dalla sua passione e parimenti dalla sua ambizione (spesso i personaggi di Bolaño sono scrittori). In verità, con il prosieguo della storia, Udo si rivelerà anche insospettabilmente determinato, pur se in maniera un poco sonnambula.
Non si facciano trarre in inganno coloro che, a proposito di questo scrittore, possono avere sentito parlare di violenza, di ubiquità del male ecc. Questi temi, è vero, ci sono, ma non hanno nulla a che vedere con la narrativa splatter, né con le crime stories propriamente dette, e nemmeno con un approccio genericamente moralista al tema del male. L'inquietudine si insinua strisciante fra le pagine, e non trascende mai i limiti propri di un linguaggio rigoroso e al tempo stesso "piano", narrativo, lontano dagli eccessi. Fuorviante a mio giudizio anche il richiamo a Murakami, che campeggia sull'edizione inglese del romanzo: comprensibile la volontà dell'editore di legare il nome di Bolaño a quello di un autore molto più famoso (e per quanto Bolaño sia stato ormai canonizzato, in primo luogo proprio negli USA, che elessero il suo 2666 romanzo dell'anno nel 2008). Ma la dimensione totalmente "oltre il reale" di tante opere di Murakami – prescindendo da Norvegian Wood, naturalmente – è estranea a Terzo Reich e anche agli altri romanzi e racconti del cileno. Qui ci si muove sempre dentro i confini della realtà, anche se, per così dire, "realtà aumentata"; Bolaño in un'intervista si è definito uno scrittore realista a cui sarebbe piaciuto essere uno scrittore fantastico, alla Philip K. Dick.
Udo e Ingeborg fanno amicizia con un'altra coppia tedesca, Charlie e Hanna, che ama tirare tardi la notte e che li introduce a due personaggi locali, il Lupo e l'Agnello, inquietanti, se visti sotto una certa luce, ma anche molto normali nel loro essere due spregiudicati casanova o "vitelloni" a caccia di donne, come tanti se ne possono incontrare nelle località turistiche. Un altro protagonista del romanzo è El Quemado, ovvero il Bruciato, un ragazzo silenzioso con il volto e parte del corpo sfigurati da una terribile ustione, che affitta pedalò sulla spiaggia (e che di notte dorme fra i suoi pedalò), il quale a poco a poco assumerà un'importanza sempre maggiore, fino a sfidare Udo a Terzo Reich.
Mistero e tensione crescono di pagina in pagina, impercettibilmente. C'è un senso di minaccia, nell'aria, ma perlopiù latente. Aleggia l'ombra di uno stupro, non si sa bene ai danni di chi. C'è una lite da cui Hanna esce con la faccia pesta, ma niente che non possa comunque accadere in una coppia conflittuale in fondo ad una notte brava. L'unico evento realmente drammatico è l'improvvisa scomparsa in mare di Charlie, durante un'uscita in solitaria con il suo windsurf.
Subito dopo, Hanna torna quasi di corsa in Germania, e così Ingeborg. Udo invece, decide di restare. Il suo personaggio sperimenta un lento slittamento: il nerd interessato solo al suo gioco ora è anche il giovane in attesa che il mare restituisca il cadavere dell'amico (se cadavere Charlie è diventato, e posto che fosse realmente un suo amico). Ma è anche l'ospite che tenta di sedurre la proprietaria dell'albergo, una donna affascinante, sposata con un marito invisibile, di cui si sa solo che è molto malato. Ed è anche il tedesco arrogante che tratta con sufficienza il personale dell'albergo, e che si porta a letto una cameriera minorenne. Soprattutto, è il giocatore che decide di restare in Spagna a tempo indeterminato, mentre la stagione cambia, e la sabbia si raffredda, dimentico di Ingeborg e persino del suo lavoro, per concludere la partita con il Bruciato e, forse, venire a capo di un enigma di cui non è facile intuire i contorni.
Qui siamo più dalle parti dell'amato Borges (e di Pessoa) che di Murakami. Un Borges senza citazioni, senza erudizione ostentata, dal momento che Udo è un ragazzo mediamente istruito, sì, ma non un intellettuale. Va detto che Bolaño fu realmente un appassionato di war games, oltre che di Seconda guerra mondiale: il figlio di un amico ricorda il suo impegno nel gioco, la sua ricerca della vittoria, anche se l'avversario era un ragazzino.
Comunque sia, l'opera di Bolaño – tutta la sua opera – sfugge a tutt'oggi alle catalogazioni. Da qualche anno piace sempre di più, mentre in vita lo scrittore ebbe scarsa fortuna. Forse ha anticipato approcci e temi divenuti comune sentire nell'era del virtuale, il mistero che ogni essere umano è per ciascun altro, la confusione fra realtà e sua rappresentazione, lo spreco dell'esistenza nell'inseguimento dei propri sogni, il male commesso per incuria morale, superficialità o arrendevolezza. Ma anche l'intreccio delle storie e la loro moltiplicazione caleidoscopica, tipica del Bolaño maturo, quello dei Detectives selvaggi, la provocazione situazionista dell'invenzione di nuove correnti letterarie e artistiche, il nomadismo culturale, la mimesi del noir o del romanzo on the road.

Un’immagine dello scrittore. Foto: Farisori via Wikimedia
Per Bolaño, come per Foster Wallace, conta anche il fascino della biografia. Figlio di un pugile dilettante e di un’insegnante, si trasferì da giovane da Santiago del Cile in Messico, vivendo un'adolescenza fatta perlopiù di libri, divorati nella biblioteca pubblica di Città del Messico. Tornato in patria subito prima del golpe di Pinochet, che pose fine al governo di Unidad Popular di Salvador Allende, venne brevemente incarcerato, a causa delle sue simpatie socialiste, anzi, per la precisione trotzkiste. A farlo uscire, dopo una settimana, furono due guardie carcerarie, con cui era andato a scuola da ragazzo (la storia, invero abbastanza minimale rispetto alla sorte toccata a tanti cileni durante la dittatura, è narrata in un racconto della sua prima raccolta, Chiamate telefoniche, anche se con i dati autobiografici, o presunti tali, che l'autore dissemina nelle sue opere, bisogna andarci piano).
Tornato in Messico, fondò il movimento, sconosciuto ai più, dell’Infrarealismo, quindi emigrò in Spagna, dove visse di lavori umili, cominciando ad avere un certo riscontro negli ambienti letterari solo poco prima della sua morte prematura, per un tumore al fegato. Al di là degli elementi romantici – l'esilio, il carcere, l'esistenza bohemienne, il successo postumo – credo abbia ragione chi, come Javier Cercas, per descrivere la narrativa di Bolaño usa l’espressione pasiòn helada. Una passione di ghiaccio, anche quando si confronta con il dolore che gli esseri umani si infliggono a vicenda, perché affidata ad una scrittura sorvegliata ("un gioco solo di testa", definisce Terzo Reich, quasi con disprezzo, la cameriera dell'hotel dove Udo soggiorna). Nondimeno una scrittura che esalta i contorni del reale, rendendoli più vividi, e che produce nel lettore una sorta di effetto-straniamento. Come se si fosse sotto l'effetto dell'hashish (non dell'eroina, di cui la leggenda vuole che Bolaño fosse un consumatore).
Alla fine, la lotta è dentro di sé, è nella mente. È lì che si combatte, all'infinito, la Seconda guerra mondiale (all'infinito anche perché spesso le storie che Bolaño racconta non hanno davvero una fine). Ed è lì che lo scrittore affronta, notte dopo notte, i suoi fantasmi: angoscia dell'influenza (bloomianamente parlando), scarto fra arte e vita, consapevolezza, forse, di essere arrivato tardi e di stare celebrando – come ebbe modo di dichiarare – la lenta sparizione della sua generazione, quella cresciuta negli anni '70…
Roberto Bolaño, Il Terzo Reich, traduzione di Ilide Carmignani, Adelphi, 2010.
Negli Stati Uniti: The Third Reich: A Novel, traduzione di Natasha Wimmer, Farrar, Straus and Giroux, 2011.