Giovedì 9 Aprile, al Calandra Italian American Institute della City University di New York, si è svolto l’evento An Evening with “Italian” Writers. Due ospiti principali, Amara Lakhous e Carmine Abate, entrambi scrittori emigranti, si sono raccontati al pubblico.
La serata è stata introdotta da una lettura di Grace Russo Bullaro, docente al Lehman College CUNY dal titolo "Migration literature and otherness: moving towards a transnational, translingual, paradigm". Grace Russo Bullaro è co-autrice del libro Shifting and Shaping a National Identity: Transnational Writers and Pluriculturalism in Italy Today.
Amara Lakhous, algerino di nascita, proveniente da una famiglia berbera, sin da piccolo capisce l’importanza della lingua. Si definisce un multilingue, a quattro anni impara l’arabo, a nove l’arabo algerino e in più si diletta a fare l’interprete per la nonna e la zia che parlano il francese. A 14 anni, capisce che vuole diventare uno scrittore, perché la sua felicità, deriva dalla scrittura. Si laurea in filosofia all'Università di Algeri ed inizia a lavorare come giornalista, ma le insistenti minacce di morte, lo portano a lasciare il suo paese. Arriva in Italia come rifugiato, all’età di 25 anni, e porta con sé un suo manoscritto, scritto in arabo, Le cimici e il pirata che sarà pubblicato solamente 4 anni dopo, un libro bilingue metà in arabo, metà in italiano.
Consegue la seconda laurea in antropologia culturale, alla Sapienza di Roma, e vince il prestigioso premio Flaiano per la narrativa nel 2006, con il libro Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, ambientato nel quartiere romano intorno a Piazza Vittorio dove da anni convivono diverse etnie e culture, e dove l’autore è andato ad abitare al suo arrivo nel Bel paese.
Al Calandra Amara Lakhous ha iniziato il suo intervento dicendo di sentirsi uno scrittore italiano, ma “non proprio italianissimo”. “In Italia – ha detto lo scrittore – esistono due termini simili ma con un significato totalmente diverso e sono eredità ed identità. Io sento di avere un eredità berbera, ed un’identità italiana. Non sono italiano solo perché ho ottenuto un passaporto italiano, ma sento di essere italiano ed di essere uno scrittore italiano perché sento, parlo, scrivo, leggo, vivo ed amo in italiano”.
A conclusione dell'intervento, l'autore si è fermato a rispondere alle domande de La VOCE di New York e ha spiegato che che la sua lingua d’origine non ha condizionato il suo modo di scrivere, ma lo ha arricchito: “Un giorno uno scrittore algerino, definì il francese un bottino di guerra. Ecco, per me pensare nella mia lingua madre e scrivere in italiano è un bottino d’amore”.
Nel raccontare la sua storia Lakhous ha parlato dei primi anni in Italia e di come lasciare l'Algeria fosse diventata una questione di vita o di morte: “In Italia ho vissuto come rifugiato, ed è stata un’esperienza dolorosa. In Algeria rischiavo di essere ammazzato ogni giorno, come tante altre persone che facevano il mio lavoro. Quando sono arrivato in Italia, ho trovato un paese che mi ha
dato la possibilità di vivere, anche se i primi mesi personalmente sono stati difficili, in quanto, quando vivevo in Algeria, mi ero programmato per la morte”. Gli ultimi ricordi dell’Algeria sono ricordi di conversazioni con gli amici su quale fosse il modo migliore per essere ammazzati senza soffrire troppo. Poi la partenza, decisa perché era “stanco di aspettare il suo assassino”, la possibilità di tornare a inseguire i propri sogni e di riprogrammarsi per vivere. La vittoria più bella per Lakhous è stata ritornare nel suo paese, nel 2004, dopo 9 anni di esilio: “Non sono tornato con una bella macchina, non sono tornato con una bella bionda, ma sono tornato con un libro”.
All'intervento dello scrittore italo-algerino è seguito quello di Carmine Abate, cresciuto in una comunità Arbëreshë in Calabria. Dopo la laurea all’università di Bari, Abate si è trasferito ad Amburgo raggiungendo il padre emigrato molti anni prima di lui. Ha insegnato in una scuola per immigrati e ha iniziato a pubblicare i suoi primi racconti. Nel 1984, la sua prima raccolta Den Koffer und weg (La valigia è chiusa) seguita da uno studio socio-antropologico, sulla comunità di emigrati calabresi, pubblicato come Germanesi. Dopo un decennio, Abate è tornato in Italia e si è stabilito in Trentino, dove continua a lavorare come scrittore ed insegnante.
Durante l'incontro al Calandra, Abate ha parlato del suo primo giorno di scuola come di un vero e proprio trauma: “Il primo giorno di scuola ero convinto di imparare il napoletano. Fino all’età di 6 anni parlavo solo l’arbëreshë. Ho vissuto l’italiano, come un qualsiasi ragazzino straniero, era come un vestito che mi andava troppo stretto, ma poi col tempo sono diventato uno scrittore e insegnante di italiano in Germania”.
L’arbëreshë è l’albanese antico, parlato da una comunità appunto albanese, fuggita dalle persecuzioni dell’impero ottomano ed approdata in Italia, precisamente in Calabria. Nonostante l’articolo 6 della costituzione Italiana stabilisca la tutela delle minoranze linguistiche intese anche come minoranze etniche culturali, Abate ha detto di non aver ricevuto nessun tipo di istruzione in arbersche e di non aver quindi mai imparato a scrivere e leggere nella sua lingua madre. Abate ha parlato di ingiustizie, non solo per la mancata tutela della sua lingua madre, ma anche e soprattutto, dell’ingiustizia di dover emigrare per poter sopravvivere e del dolore di crescere con “un papà fatto di carta e penna”. E ha concluso: “l’emigrazione è negli occhi degli altri”.
Lunedì 13 Amara Lakhous sarà alla Montclair State University in conversazione con Ann Goldstein (The New Yorker) e Michael Reynolds (Europa Editions), all'interno del programma Migrating Words, organizzato dalla cattedra Inserra in Italian and Italian American Studies.