Un ponte musicale tra l’America e l’Italia con l’obiettivo di creare collaborazioni, fare incontrare autori e artisti. È ambizioso il progetto di Roberto Mancinelli, campano di nascita, bolognese di formazione e oggi newyorchese di adozione. La musica per lui è sempre stata una passione ossessiva, ancora prima degli anni al Dams di Bologna dove si è laureato.
Giornalista musicale, si forma nelle radio italiane: Radio Kiss Kiss, Radio 105 e Radio Montecarlo. Prima di arrivare a New York, a Milano era CEO, direttore e A&R per la Sony, di cui oggi è SonyAtv Consultant Italian Portfolio. Ha una passione per la musica country e il cantautorato italiano. Talent scout alla ricerca di talenti musicali, ha già fatto incontrare e collaborare l’artista italiano Stylophonic e Rob Fusari, il primo produttore di Lady Gaga. Si sente un pioniere in questa strada che vuole portare a far conoscere la musica italiana oltre gli stereotipi. Prima o poi, dice lui, ci sarà una hit sul mercato frutto delle culture musicali. A Los Angeles preferisce New York, centro culturale del mondo e tappa fondamentale per ogni artista.
Roberto sei a New York dal 2014 con l’obiettivo di fare incontrare due culture musicali: quella italiana e quella americana.
“Un progetto con un obiettivo molto ambizioso. Il vero scopo è quello di far capire che noi italiani possiamo fare bene musica pop anche al di fuori di certi stereotipi in cui la musica italiana è intrappolata negli Stati Uniti. E per fare questo, creo le condizioni per fare incontrare gli autori/artisti italiani con quelli americani in modo da sviluppare collaborazioni, creare un testo e una musica insieme”.
Sembra un’operazione non facile soprattutto perché parliamo di musica pop…
“Le difficoltà principali sono legate alle barriere linguistiche e a un certo dominio culturale. La musica pop che domina oggi utilizza esclusivamente la lingua inglese e viene dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti. Il pop italiano è diverso, ma non per questo meno interessante. La sfida sta proprio in questo: fare incontrare i due mondi per poter dare vita a un prodotto unico che nasce in lingua inglese, ma con l’anima italiana e la tecnica americana. Ci sono degli argini da rompere e per questo mi sento, in un certo senso, un pioniere”.
Quali sono le differenze tra il modo di fare musica pop degli italiani e quello degli americani?
“Loro sono più tecnici e professionali, hanno un approccio molto professionale perché scrivere testi è un lavoro che viene ampiamente e giustamente riconosciuto sotto diversi aspetti. Noi italiani siamo più romantici, poetici nell’uso della lingua e della musica. Queste due dimensioni insieme quando si incontrano portano alla nascita di qualcosa di unico e originale. Ma per farlo, la strada che io ho intrapreso è quella di far nascere i testi in lingua inglese perché adattarli poi è più semplice”.
Come ti spieghi il fatto che certi artisti italiani negli Stati Uniti non riescano a penetrare nel mercato americano o hanno un pubblico prettamente italiano?
“Dipende dal genere. Quando si parla di musica italiana nel Nord America, l’Italia viene subito identificata con la lirica e la musica melodica. Per questo Andrea Bocelli e Il Volo riscuotono un grande successo. Gli italiani che fanno rock e rap, in America hanno molte difficoltà perché è come rubare a casa del ladro. Questo spiega perché Ligabue e Vasco Rossi sono sconosciuti negli Stati Uniti. Altri autori, come Franco Battiato, sono spesso difficili per un pubblico americano”.
Però ci ha provato Jovanotti a sbarcare negli States con il rap e Zucchero con il blues.
“Non ho visto, ahimè, ancora nessun concerto di Jovanotti qui in America. Che io sappia, il suo pubblico è per la maggior parte un pubblico italiano. Zucchero fa un genere musicale, il blues, che rimanda a una certa tradizione familiare in America. Il suo è un tributo a gente come, tanto per citarne qualcuno, Joe Cocker e affini…”.
Il tuo ruolo è anche quello di un talent scout che ha portato giovani emergenti negli Stati Uniti.
“Mi piace entrare a fondo nella psicologia della persona, dell’artista con cui collaboro. Si tratta spesso di persone con una personalità molto intensa e di grande spessore. Per me è un’enorme soddisfazione vedere questi giovani artisti negli Stati Uniti. Così è stato per Giovanni Caccamo, vincitore tra le nuove proposte al Festival di Sanremo 2015 che lo scorso novembre è venuto a New York. Qui è arrivato anche Stefano Fontana in arte Stylophonic, con cui sto lavorando a una collaborazione con Rob Fusari, il primo produttore di Lady Gaga. In arrivo anche Serena Brancale, voce e penna soul sebbene passata anch’essa da Sanremo 2015 e nata a Bari. Lo scopo è sempre quello: dimostrare che noi italiani sappiamo fare il pop, la dance, al di fuori dei soliti stereotipi. E dimostrare che dall’incontro delle due culture musicali, quella italiana e quella americana, nascono grandi cose. Sono convinto che prima o poi uscirà fuori una hit “collaborativa” anche nel mercato americano”.
Sei a New York dal 2014. Come mai hai scelto la Grande Mela per fare musica pop e non Los Angeles?
“Questo è quello che mi è stato detto da tutti, ma io sono sempre convinto che New York sia al centro della scena culturale globale. Non esiste altra città al mondo dove si fa musica, di ogni genere, come a New York. Questo dipende anche dal fatto che la figura del musicista, dell’autore, di chi lavora nel settore musica, viene riconosciuta professionalmente e socialmente, a differenza dell’Italia. New York rimane una tappa fondamentale per ogni artista perché ti dà una grande carica a livello di autostima, con una grande eco rispetto all’Italia. Se passi da New York, l’Italia si accorge più facilmente di te”.
Tu hai avuto la fortuna in Italia di poter lavorare professionalmente nel campo della musica.
“La musica per me è stata sempre una passione ossessiva. Vengo dalla radio, dal giornalismo musicale, dal Dams di Bologna, il primo corso di laurea in Italia che ha portato dentro le aule la carriera musicale come professione. La musica come carriera diventa in Italia un privilegio per pochi, è vero. Questo perché, ribadendo quello che dicevo prima, la musica negli Stati Uniti ha un riconoscimento che inizia sin dalle scuole, fa parte della vita quotidiana, ha la stessa importanza delle altre discipline. In Italia, chi fa il musicista spesso deve cercare un altro lavoro e fa fatica a vedere il suo ruolo riconosciuto dalla società”.
Dove nasce la tua formazione musicale?
“Ho studiato a Bologna, dove se non conoscevi Guccini non potevi neanche entrare in città. Il cantautorato italiano fa parte della mia formazione. L’America mi ha aiutato ad aprirmi al jazz che in Italia viene ancora visto come una musica elitaria. Oggi mi affascina molto il country che in America sta vivendo una bella stagione di rinnovamento”.
Cosa pensi dei talent show musicali su cui spesso piovono molte critiche?
“Ci sono sempre stati. Se pensi al Cantagiro del passato e oggi abbiamo Amici. Non li condanno e incoraggio a farli perché fanno venire fuori dei talenti. Capisco però che la televisione amplifica e banalizza, spesso. Chi sopravvive alle dure prove dei talent show non è quasi mai un principiante, ma ha alle spalle una lunga gavetta”.
Oggi con quale artista italiano stai lavorando?
“Mi piace pensare di lavorare o poter lavorare con qualsiasi artista abbia voglia e possibilità di mettersi in gioco su questo difficile, ma bellissimo mercato. Come dicevo prima, è in arrivo Serena Brancale che terrà in città una serie di concerti/workshops grazie anche al supporto di Piccolo Cafe che sta credendo in questo progetto, ma se va come dico io da qui alla fine dell’anno ci sarà parecchio da vedere e sentire”.
Ti piacerebbe scrivere musica?
“Scrivere io musica? Direi di no. Lascio ai professionisti il difficile compito di trascrivere emozioni. Io al massimo potrei dare qualche immagine qua e là nei testi…”.