Renzo Arbore in una vecchia intervista diceva che, quando era ragazzo, a Foggia, la sua città, e in seguito a Napoli, dove si era trasferito per studiare Giurisprudenza, era solito passare molto tempo al bar con i suoi amici a chiacchierare del più e del meno, a fare commenti sulle ragazze o sui vari personaggi del quartiere, a leggere il giornale e, soprattutto, a fare quello che i benpensanti definiscono in genere come la classica perdita di tempo. Per chi abita a New York o a Toronto, probabilmente tutto questo risulterà strano ma per chi, come me, è vissuto invece a Roma, nel popolare quartiere di Miani, vicino a San Saba e Testaccio, è tutto molto chiaro, quasi scontato.
Tutti i ragazzi italiani della mia generazione infatti hanno avuto il loro bravo baretto sotto casa e io non sono stato da meno. Il mio baretto si chiamava e si chiama tuttora Latteria Brunori, dal nome della famiglia che lo gestisce da generazioni.
Si trova in Largo Chiarini, a due passi dalla Piramide e da quel viale di Porta Ardeatina dove ha sede attualmente la splendida Casa del Jazz, sommo luogo di ritrovo di musicisti provenienti da tutte le parti del mondo. Quella piccola latteria, è oggi gestita in modo impeccabile dal mio amico d’infanzia Stefano che, oltre a fare il proprietario di bar, è anche un grande collezionista di dischi in vinile. Ne possiede circa diecimila e qualcuno lo vende anche all’interno dello stesso bar. C’è gente che per comprare i suoi rari dischi viene da ogni parte della città, qualcuno anche da fuori Roma. Il Miani è diventato recentemente anche zona prediletta dai cinematografari. Molti attori e registi hanno preso casa da quelle parti. Tra gli altri anche Paolo Virzì insieme alla sua bella moglie Michela Ramazzotti e Francesco Bruni, il regista di Scialla, film girato in larga parte proprio tra le mura della suddetta Latteria.
Ma, lasciate per un momento da parte le glorie del presente, devo dire che il luogo è stato invece magica location dei miei anni giovanili. È qui che venivo a cercare i miei amici dopo aver fatto i compiti, a giocare a flipper, a carte, sui tavolini che stavano all’esterno. È qui che davo appuntamento alle mie prime fidanzatine, a bere i primi bicchieri di vino e anche a comprare le prime sigarette, attento a non farmi poi beccare dai genitori al rientro a casa. È qui che venivo a confidarmi con il mio amico Stefano quando, disperato per pene d’amore, non sapevo dove andare a sbattere la testa ed è sempre qui che, in un lontano inverno di circa 35 anni fa, fondammo la mitica squadra di calcio autogestita della Latteria iscritta per ben nove anni di fila ai tornei amatoriali UISP. Eravamo quindici o sedici ragazzi, con tanto di allenatore, ovvero Lino il parrucchiere, fissato con gli schemi, i moduli e lo schieramento a zona, oltre che con la permanente per signora, s’intende.
Ci allenavamo due volte a settimana su un desolante campetto di pozzolana e, quando pioveva molto o faceva troppo freddo, andavamo nella palestra della parrocchia a fare esercizi. Poi alla domenica mattina tutti sul campo a giocare. Poiché eravamo troppi per scendere contemporaneamente in campo, avevamo stabilito un cartellone perché tutti potessero giocare lo stesso numero di volte. Era un problema perché a volte i più forti dovevano stare fuori, per turno stabilito e allora magari le prendevamo perché quelli deboli stavano invece in campo e non segnavano mai.
E il lunedì, al baretto, c’erano i commenti sulla partita appena disputata oltre che quelli sulle nostre squadre del cuore di serie A, la Roma e la Lazio.
Era tutto molto semplice. Una vita più semplice. I rapporti più semplici. Non c’erano telefonini, i-phone, computer, videogiochi. Ci si telefonava il giorno prima per vedersi davanti al bar il giorno dopo oppure si passava a citofonare ad un amico per farlo scendere. La vita quotidiana la trascorrevamo molto nel quartiere stesso che ci proteggeva e avvolgeva come le braccia calde e sicure di una mamma. Nel quartiere, oltre al baretto, c’erano i nostri amici, le fidanzate, il cinemino di terza visione con le panche di legno, la pizzeria e i giardinetti di piazza Albania dove, nell’autunno del ’76, in una serata piovosa, io e un paio d’amici andammo a sentire uno sparuto gruppetto di musicisti il cui leader, ex famoso cantante degli anni ’60, era un po’ decaduto. Si chiamava Lucio Dalla e aveva appena fatto un meraviglioso disco, Anidride Solforosa su testi di Roberto Roversi, che segnò la sua nuova irrefrenabile ascesa nel firmamento della musica italiana.
Eravamo una ventina a sentirli quella sera e io, un po’ stanco di stare in piedi, mi appoggiai con i gomiti sulla pianola del simpatico Lucio. “Stai comodo, ciccio? – mi disse lui sorridendo – E, visto che ci sei, mi giri pure lo spartito?”.