Cari lettori de La VOCE di New York,
Tempo fa avete visto un articolo decisamente innocentista sul caso di Enrico Chico Forti, l’italiano che sta scontando l’ergastolo lwop in Florida: un articolo che si rifà alle interviste e trasmissioni televisive che da anni forniscono la versione dei fatti voluta dagli amici di Forti. Quello che invece vi propongo io è un saggio basato sui fatti, il diritto, la logica e i documenti. Per non appesantire la narrazione ho ridotto al minimo le note bibliografiche e ho evitato riferimenti a testi americani, ma se vi interessa un saggio più completo potete leggerlo qui.
Il caso Forti sta per uscire dai confini nazionali e, grazie a due bislacche mozioni parlamentari, giungere al cospetto dell’opinione pubblica americana e internazionale. Un simile passo andrebbe attentamente valutato e prima di farlo occorrerebbe compiere una profonda riflessione, ma la cosa più incredibile del caso Forti è che tutti prendono per vere le sue affermazioni e a nessuno è venuto in mente di svolgere un’indagine sulla vicenda. Nessuno ha intervistato i protagonisti, nessuno ha chiesto aiuto ai cronisti giudiziari della Florida e alle organizzazioni che si occupano di innocenti. In pratica vengono prese in considerazione solo le contraddittorie affermazioni degli amici di Forti senza sottoporle a un minimo di analisi critica. Eppure non c’è bisogno di avere alle spalle anni di studio per accorgersi che quello che ci viene proposto è inattendibile: in effetti basta leggere i documenti pubblicati, i pochi documenti pubblicati in realtà perché, altra incredibile anomalia, si accetta senza fiatare che il 99% degli atti del processo siano ancora segreti, come del resto lo sono le sei richieste d’appello. In definitiva il pubblico italiano, le sue fonti di informazione e i suoi rappresentanti politici sembrano avere accettato senza porsi troppi problemi l’innocenza del Forti.
Il grande imbroglio di Chico Forti. Nuova edizione per Deputati e Senatori, nella speranza che la leggano prima di votare le assurde e diffamatorie mozioni che gli sono proposte.
Incipit
Chico Forti è un truffatore e un assassino. Lo ha deciso, dopo un lungo e regolare processo, una giuria americana. Se lo si considera l’innocente vittima della mala-giustizia occorrerà fornire prove estremamente robuste e dimostrare in modo impeccabile che il processo non è stato regolare perché, anche se gli innocenti condannati non sono pochissimi, il cammino per ottenere un nuovo processo non è né facile, né semplice. Nelle aule giudiziarie degli Stati Uniti il cazzeggio non è gradito e, anche se gli americani fanno dei casini incredibili, non basterà certo urlare “Chico libero” per ottenere ascolto.
I fatti
Enrico Chico Forti ha preso in consegna la vittima Dale Pike alle 18.00 di domenica 15 febbraio 1998 e del poveretto si perde ogni traccia fino al lunedì, quando in suo cadavere viene rinvenuto per puro caso. Forti non solo è privo di un qualsivoglia alibi, ma mente sfacciatamente fin dal primo momento. Alle 19.16 di quella stessa sera telefona alla moglie da un posto vicino a quello del crimine e le dice che Dale Pike non è arrivato. Nei giorni successivi ripeterà questa menzogna a tutto il mondo, anche al padre della vittima e più volte alla polizia. (Matassa 71-75)
Un alibi inventato
Oggi Forti afferma di essersi fermato a una stazione di servizio dove la vittima avrebbe fatto una telefonata e cambiato programma, ma non si è mai preoccupato di rintracciarne il misterioso destinatario. Inoltre non si spiega perché Dale Pike non abbia telefonato dall’aeroporto o con il telefonino di Forti e perché nessuno abbia controllato la videosorveglianza e soprattutto perché, con un alibi a prova di bomba come questo, Forti abbia mentito alla polizia. Incredibile poi che Forti non abbia degnato di uno sguardo i tabulati dell’anno sbagliato che la Procura ha portato al processo: evidentemente sapeva che l’alibi della telefonata è falso. Comunque sia “ad oggi nessuno sa chi aveva chiamato Dale quel pomeriggio” (Bruzzone 312) e nessuno l’ha mai cercato.
“La Corte non ha le prove”
La più clamorosa frottola prodotta dai sostenitori di Forti è la surreale circostanza della condanna basata su di una sensazione. Questa assurdità giuridica compare a nove anni di distanza dalla condanna ed è, per chiunque abbia una sia pur minima conoscenza del diritto americano, inimmaginabile. L’Allegato 85 fornisce la fonte di questa balla. Il padre della vittima ha scritto, in una lettera del 2009, che il giudice Victoria Platzer avrebbe fatto questa inverosimile affermazione: “La Corte non ha le prove che lei sig. Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ho la sensazione, al di là di ogni dubbio, che lei sia stato l’istigatore del delitto” e questa sciocchezza è accettata senza discussioni perché “Tony Pike era presente al momento della lettura della sentenza” (Bruzzone 334). Ma allora perché Forti, lo zio Gianni, il Console, i cronisti e gli avvocati non sono saltati sulla sedia? E, se la Platzer ha effettivamente sparato questa assurdità, perché nessuno ne ha parlato fino all’estate del 2009? Perché nessuna delle interpellanze parlamentari che si occupano di Forti dal 2000 in avanti ne fa parola? Perché anche qui occorre aspettare fin oltre il 2009? Perché Matassa non ne parla nel suo libro del 2007? L’impudenza del Forti arriva a produrre il testo della lettera di Pike padre (All. 86) in cui si legge: “Portate quest’uomo in catene …”, ma le “catene” erano troppo persino per loro. E’ appena il caso di notare che è la giuria a decidere il verdetto, mentre il giudice decide la sentenza che, nel caso di Forti, era obbligatoriamente l’ergastolo lwop. La frase incriminata non avrebbe alcun peso anche se fosse stata effettivamente pronunciata.
Lei ha il diritto di tacere
La polizia americana ha piena libertà di mentire a un sospettato (Sentenza Frazier 1969) e l’obbligo di leggergli i diritti Miranda solo quando questo è in custodia, in pratica quando ha le manette ai polsi, come del resto sa chiunque abbia visto un telefilm del Tenente Colombo. Chico Forti è stato arrestato solo il 20 febbraio 1998 e la polizia, nell’interrogatorio del 19, i diritti proprio non doveva leggerglieli, anche se era già indagato. Il fatto che Forti abbia mentito dicendo di non avere incontrato la vittima si spiega solo con la necessità di nascondere il suo crimine (Allegato 30).
In ogni caso Forti non è stato ingannato nell’interrogatorio del 19, ma forse in quello del 20 e l’Allegato 26 non è altro che un maldestro tentativo di falsificazione. Forti ci fornisce un pizzino di carta tutto sbianchettato che un paio di dettagli mostrano essere del 20 e non del 19. In alto si nota la data scritta in stile americano 2/20 e sempre in alto si legge che alle ore 23.30 Forti acconsente alla perquisizione del suo appartamento, cosa questa accaduta solo il 20 febbraio perché l’interrogatorio del 19 è terminato alle 22.15 (All. 30) Ricordo che Forti nasconde la totalità degli atti del processo perché la loro pubblicazione ne rivelerebbe la colpevolezza.
Il nolle prosequi non è un’assoluzione
Non è vero che Forti sia stato assolto dall’accusa di avere truffato il padre della vittima. La Procura ha semplicemente sospeso il capo d’imputazione con un nolle prosequi e la truffa resta il movente dell’ assassinio. Forti è stato condannato come partecipante a un felony murder: un omicidio commesso durante l’esecuzione di un altro crimine, la truffa appunto e tutti i discorsi sul double jeopardy, sull’assoluzione e sulla giuria ignara sono solo frottole platealmente contraddette dalla motion in limine pubblicata proprio da Forti (Allegato 57, p 7-8), dove la Corte, utilizzando un caso analogo, spiega perché Forti non può dire alla giuria di essere stato assolto dalle accuse di truffa. Da notare come il nolle prosequi segua di due giorni il secondo arresto di Forti, avvenuto l’11 ottobre 1999, e non sia l’immediata assoluzione di cui si parla continuamente (All. 96). Inoltre il fatto che Thomas Knott abbia patteggiato le sue accuse di truffa non rende Forti innocente.
Il processo lampo
I processi americani sono molto brevi: durano due o tre giorni, una settimana e solo in qualche caso si prolungano per settimane o mesi, mentre il processo a Forti si è protratto per 24 giorni, un tempo piuttosto lungo per i canoni americani. Dev’essere stato anche parecchio noioso se, per non tediarci, Forti si è sempre rifiutato di pubblicarne gli atti. Però, se i processi sono veloci, le istruttorie sono lunghe e per un murder of the first degree come questo durano normalmente due o tre anni e spesso molto di più. Cadono quindi le affermazioni sullo “speed (sic) trial” e sui due anni spesi dal prosecutor Reid Rubin per preparare l’arringa finale.
No Opinion
Le giurie americane non motivano mai i loro verdetti. Ci piaccia o meno le ragioni della condanna o dell’assoluzione sono segreti. Il giudice non partecipa alla decisione e deve prenderne atto. Negli appelli le corti non entrano nella decisione della giuria perché non la conoscono e, se emettono una sentenza senza motivazione, questa si riferisce agli eventuali errori di legge del processo e non all’interpretazione dei fatti e delle prove che resta “province of the jury”. Quindi nessuno sa e nessuno saprà mai quali sono le ragioni per cui la giuria ha deciso che Forti era colpevole; come del resto nessuno avrebbe mai conosciuto le ragioni di una assoluzione.
Un teste che la giuria non ha mai visto
Il truffatore tedesco Thomas Knott non è stato il teste principale contro Forti: ha patteggiato una condanna a tre anni e non ha partecipato al processo. Al contrario di quanto ci dicono non conosceva la vittima Dale Pike e un suo coinvolgimento nell’assassinio è tutto da provare. Knott ci è sempre stato indicato come il teste principale dell’Accusa, ma ora gli amici di Forti ammettono (Bruzzone 38) che il tedesco non ha testimoniato al processo e, a pagina 37, ci fanno sapere che Knott, in prigione dal febbraio 1998, “si è dichiarato colpevole [per 15 capi d’imputazione] ed è stato condannato a quindici anni di reclusione.” Ma al rigo successivo si ravvedono e scrivono che “si era dichiarato colpevole ed era stato condannato a tre anni di reclusione”. In realtà abbiamo sempre saputo che il tedesco ha patteggiato tre anni per truffa (allegati 85 e 85a) e che ha scontato la pena contemporaneamente a due condanne federali, la prima a 15 mesi per truffa e la seconda a 12 mesi per avere mentito sui suoi precedenti al momento dell’acquisto della pistola (Miami Dade County data base). Knott non era in America sotto falso nome e con documenti falsi, ma risiedeva legalmente a Miami dove tutti sapevano della condanna a 6 anni che aveva scontato per una truffa in Germania (Bruzzone 48). Però (ivi 38) Knott verrebbe inspiegabilmente liberato il 27 settembre 2002 “nell’immediatezza del rifiuto dell’appello in favore di Forti (…) dopo avere scontato solo in minima parte la pesante condanna che gli era stata inflitta”. La condanna torna di 15 anni a pagina 177, ma a pagina 307 Knott viene liberato il 27 settembre del 2000, come in effetti accaduto, “dopo la condanna di Forti” e poi, a pagina 362, di nuovo torna libero “dopo l’appello” il 27 settembre 2002. Gli amici di Forti continuano a dire che Knott è stato il principale teste dell’accusa (ivi 258) pur essendo egli “un ‘testimone’ che però non ha mai testimoniato” (Bruzzone 190).
Nel processo americano l’imputato non parla per ultimo
Anzi, proprio non parla. L’accusato può solo rispondere alle domande se giura come teste: cosa normalmente sconsigliata e che non modifica la successione delle arringhe, dove è sempre l’Accusa a concludere il dibattimento. Nel 2000 in Florida vigeva la Regola 3.250 secondo la quale: “a defendant offering no testimony in his or her own behalf, except the defendant’s own, shall be entitled to the concluding argument before the jury.” Presumendo che Forti abbia portato qualcosa in aula nelle lunghissime 18 udienze, i farfugliamenti pseudogiuridici dei suoi amici non sono credibili (Bruzzone 210, 180-181). Nel caso poi insistano con la storia dell’Accusa che parla per ultima se l’imputato non si fa interrogare, allora dovrebbero spiegare che fine ha fatto il Quinto Emendamento (Matassa 125). Inoltre ricordiamo che nell’istruttoria americana non esiste l’interrogatorio di garanzia, come sa chiunque abbia mai visto qualche telefilm di L&O.
Il giudice Platzer
Si sostiene l’incompatibilità e la scorrettezza del giudice Victoria Platzer che, quando era in polizia, avrebbe partecipato alle indagini sul caso Versace-Cunanan (Matassa 103 e 109). In effetti la Signora Platzer è stata in polizia, ma dal 1976 al 1983 (15 anni prima dei fatti che ci interessano) e in quella di Miami Beach, mentre l’assassinio di Dale Pike è avvenuto nella giurisdizione di Miami. Ha poi fatto l’avvocato ed è diventata giudice nel 1994. Non è stata lei a ricevere il patteggiamento di Knott e non ha nulla a che fare con l’inesistente assoluzione di Forti dall’accusa di truffa, ma è proprio grazie a lei che Forti è uscito su cauzione con un Arthur Hearing (All. 81).
La scena del crimine
Il cadavere di Dale Pike è stato spogliato e martoriato dai complici di Forti per simulare un omicidio a sfondo omosessuale. Il corpo è stato nascosto e rinvenuto per caso 24 ore dopo l’assassinio. Gli oggetti trovati attorno al morto sono andati persi nell’azione di depistaggio compiuta nel buio più totale (in Florida a febbraio fa buio alle 18.15) e l’ipotesi che questa montatura servisse a incastrare Forti non è credibile, nemmeno per i suoi amici (Bruzzone 123). Gli amici di Forti si sforzano di svillaneggiare la povera vittima e insistono sulla natura omosessuale dei suoi rapporti con Thomas Knott: peccato che i due nemmeno si conoscessero (Testimonianza di Anthony Pike All.59 p 141, 183, 187).
La scheda telefonica
Vicino al cadavere martoriato di Dale Pike è stata rinvenuta una scheda telefonica e su questa Forti ha costruito la sua teoria innocentista; ma nulla cambia nella ricostruzione dei fatti e l’unica cosa certa è che qualcuno (i complici di Forti?) ha fatto tre telefonate con quella scheda. Tre telefonate a tempo zero: le prime due a numeri simili a quello di Forti e solo il terzo al numero del suo telefonino. Se volessimo credere alla teoria che queste telefonate servissero a incastrarlo dovremmo anche chiederci perché non abbiano atteso che Forti rispondesse alla chiamata e si siano accontentati di far squillare il suo telefonino. Come facevano a sapere che era il numero giusto se non hanno avuto risposta? Forse erano a due passi dal Forti? In ogni caso perché gli amici di Forti non hanno utilizzato le loro ragguardevoli capacità investigative per rintracciare il fantomatico numero di telefono che la vittima avrebbe chiamato dalla famosa stazione di servizio?
Non è scappato
Gli amici di Forti segnalano come prova della sua innocenza il fatto che non sia fuggito durante i mesi di libertà provvisoria che vanno da febbraio 1998 a ottobre 1999. In effetti Forti ha trascorso venti mesi in libertà, ma solo grazie al giudice Platzer che gli ha concesso di restare a piede libero con un’ Arthur Hearing (26 febbraio 1998, All. 81) in cui Forti e la moglie hanno messo tutte le loro proprietà nelle mani della Corte, accettando che in caso di fuga queste venissero sequestrate. Anche il solo tentativo di sottrarsi alla giurisdizione sarebbe costato a Forti parecchia galera (il bail jumping è un reato federale) e la perdita di ogni bene. Non so quanto abbia salvato del patrimonio la seconda Signora Forti, ma è stata certamente lei a vigilare attentamente sugli spostamenti del marito, molto più della polizia. Da notare poi che la moglie di Forti non ha mai speso una parola in favore del marito che, durante la libertà in attesa di giudizio, ha prodotto dei documenti notarili falsi allo scopo di crearsi un alibi: circostanza di cui il Forti non parla mai.
Dichiararsi colpevole
Forti insiste sul fatto che avrebbe potuto dichiararsi colpevole e che questo gli avrebbe consentito di essere trasferito in Italia. Nulla di vero. Forti avrebbe potuto tentare un plea bargain con l’Accusa e ottenere, in cambio della confessione, una condanna più lieve. Ma questa ipotesi è svanita con il verdetto e ora una sua ammissione di colpevolezza sarebbe irrilevante e non si conoscono casi di lwop in cui sia permesso di scontare la pena in un altro paese.
Un nuovo processo
Uno dei mantra è la richiesta di un nuovo processo, ma Forti non l’ha mai chiesto. Al contrario pretende di essere scambiato, come fosse una spia russa, per tornare in Italia da uomo libero e afferma, senza fornire prove, che lo scambio sarebbe pratica quotidiana nelle carceri statunitensi.
L’accusa di truffa non è apparsa solo nella requisitoria finale
Fino a poco tempo fa gli amici di Forti affermavano che l’accusa di truffa sarebbe comparsa solo all’ultimo minuto durante la requisitoria del Prosecutor Reid Rubin, ma oggi vanno dicendo che al processo si è parlato solo di truffa. Da notare che Anthony Pike non era fallito ed è sempre stato il proprietario del Pike’s Hotel a Ibiza: albergo che ha gestito nei dieci anni successivi alla morte del figlio e poi venduto, ma dove continua a vivere e dove ha sparso le ceneri di Dale. Forti non ha mai avuto i cinque milioni di dollari necessari per acquistarlo e Dale Pike è stato ucciso proprio perché era andato a Miami a verificare la capacità economica del suo assassino.
Traduzioni balorde
L’affermazione del Procuratore secondo cui: “The State does not have to prove that he is the shooter in order to prove that he is guilty…” significa che l’Accusa non deve provare che Forti è stato l’esecutore materiale del delitto (the shooter: lo sparatore) per dimostrare che è colpevole, ma nella maldestra traduzione italiana è diventata: “Lo Stato non deve provare che egli sia stato l’assassino al fine di dimostrare che lui sia il colpevole…” divenendo così incomprensibile per gli italiani: anche se un minimo di conoscenza del diritto penale americano consentirebbe di capire che una frase simile, in un felony murder, ha un significato compiuto e preciso (Matassa 17, 37, 154 e Bruzzone 240, 270). Ricordo inoltre che l’ergastolo lwop (life without parole) è una dei due tipi di ergastolo americano che, al contrario dell’altro, non prevede nemmeno teoricamente la possibilità di rilascio anticipato sulla parola. Riguarda 50.000 dei 160.000 ergastolani statunitensi.
Il conflitto d’interessi
Forti è stato patrocinato da due famosi e costosi avvocati, il leggendario Donald Bierman e Ira Loewy, che gli sono costati 500.000 dollari, che è ridicolo pensare fossero venduti alla Procura e che non hanno commesso errori di sorta. Non lo hanno fatto testimoniare perché nessuno sarebbe stato così pazzo da farlo e questo non ha minimamente mutato il processo, dove è sempre l’Accusa ad avere l’ultima parola. Uno dei due (Loewy) faceva lo special prosecutor, seguiva cioè il caso di Diane Lynn Vardalis (All. 61 e 71): lavorava cioè al posto della Procura e non alle dipendenze di Rubin. La Vardalis, impiegata dello State Attorney, era sotto inchiesta e, per impedire un conflitto d’interessi, s’era deciso, com’è normale procedura in questi casi, di affidare l’incarico di prosecutor a un noto avvocato. Il caso era di poco conto e si risolse con un patteggiamento e una condanna alla probation. Cadono quindi tutte le affermazioni di commistione e infedele patrocinio. La faccenda poi è conosciuta da almeno dieci anni (Albaria), è già arrivata senza successo in aula e ora susciterebbe ilarità più che irritazione. Gli amici di Forti la vogliono far passare per causa di assoluta nullità del processo, ma non forniscono né indicazioni precise (si parla di un compagno di cella che avrebbe svelato l’arcano, ma la Vardalis è donna) e nemmeno citano precedenti. In definitiva Forti vorrebbe che il suo processo fosse annullato perché manca una firmetta su di un pizzino di carta. Anche se riuscisse ad arrivare davanti a un giudice non sarebbe minimamente in grado di provare che, se la firmetta ci fosse stata, il processo avrebbe avuto un diverso epilogo.
La congiura
Non è assolutamente vero che la polizia di Miami volesse punire Forti per il suo scialbo filmetto sul suicidio di Andrew Cunanan, l’assassino di Gianni Versace: perché in America non è mai stato trasmesso e non l’ha visto proprio nessuno (Bruzzone 173). Anche se fosse vero che gli volevano male non avrebbero certo aspettato sei mesi per vendicarsi: avrebbero fatto trovare un po’ di marijuana nell’auto di Forti e l’avrebbero spedito in galera per trent’anni (cinque per la marijuana e venticinque per la pistola). A nessuno poi è mai venuto in mente di portare questa storia in aula, perché “sarebbe stato come arrampicarsi sui vetri” (Gianni forti a Radio Anch’Io).
Un filmetto da quattro soldi
Fin dall’inizio Forti afferma di avere paura per la propria incolumità in carcere, dove la sua vita non varrebbe più di 200 dollari. Quindi non fa i nomi dei potenti personaggi per i quali sarebbe un “personaggio scomodo” per via del suo documentario. Già nel 2001 disse: “Io sono in un ambiente dove la vita di una persona vale 200 dollari e dove, se le mie verità dovessero arrivare a un punto che possono compromettere persone che sono a un certo livello … non so quanto mi convenga adesso parlare di questo o aspettare l’appello e poi …” (Radio Anch’io). Stiamo ancora aspettando.
La sabbia e la pistola
Nulla di quanto dicono è vero. Forti si sarebbe trovato, per puro caso, in un negozio di articoli sportivi nello stesso momento in cui il suo amico Thomas Knott stava acquistando una pistola calibro 22: lo stesso tipo di arma con cui mesi dopo sarà assassinato Dale Pike. Visto che la carta di credito del tedesco non passava Forti avrebbe pagato con la sua, ma si ribadisce continuamente che la pistola fu data a Knott e non a Forti. Teste chiave sarebbe il commesso Ken Duval che avrebbe giurato e spergiurato che quest’arma Forti non l’avrebbe nemmeno toccata. Peccato che (All. 36) Duval dica l’esatto contrario e affermi che i due sono arrivati insieme e che non ha consegnato niente a nessuno, perché il tedesco non aveva la documentazione necessaria per il background check e che la pistola è stata consegnata da altri il giorno dopo, ma Duval non sa a chi.
La sabbia ritrovata nel gancio di traino della Range Rover di Forti è stata certamente un piatto forte del processo, ma ogni informazione a riguardo ci viene occultata. Nulla sappiamo della discussione avvenuta davanti alla giuria e ci vengono fornite solo contraddittorie affermazioni sulla sabbia di riporto, su di un inesistente uragano, sull’impossibilità di raggiungere la spiaggia, come se questa fosse cinta da un muro. In ogni caso è evidente che l’Accusa ha provato che Forti ha portato il cadavere di Pike con la sua auto nell’arenile e che i suoi complici hanno organizzato una scena del crimine che facesse pensare a un omicidio a sfondo omosessuale.
Quale polizia?
Nella Miami Dade County (che ha 200 omicidi l’anno) ci sono 37 diverse agenzie di polizia. C’è quella della Contea (equivalente dello sceriffo) che, con i suoi 5.000 uomini, garantisce il rispetto della legge in tutto il territorio e fornisce aiuto alle 36 polizie locali. L’omicidio Pike è avvenuto nel territorio della polizia di Miami (1.800 agenti), mentre il delitto Versace e il suicidio Cunanan sono avvenuti nella giurisdizione della polizia di Miami Beach (600 agenti). Il poliziotto Gary Schiaffo, uno di quelli che ce l’avevano con Forti, era di Miami Beach ed è difficile credere che abbia potuto influenzare i poliziotti di Miami, la Procura (State Attorney) della Contea e il giudice.
Diritto internazionale
Non c’è stata violazione della Convenzione di Vienna che prevede (Art. 36b) che il Consolato sia avvertito solo su richiesta del fermato e Forti non si preoccupò nemmeno di avvisare la sua famiglia in Italia; né del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR) il cui Articolo 14 non prevede le perentorie indicazioni che vogliono farci credere gli amici di Forti; né tantomeno della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo di cui gli Usa non fanno parte.
Siamo in America e non in Italia
I sostenitori di Forti non si rendono conto che il delitto è stato commesso in Florida e non a Forlimpopoli e che valgono le leggi americane. Non capiscono che da quelle parti il sistema giudiziario è diverso e pretendono che i nostri ragionamenti legali trovino spazio nelle corti americane (Matassa 109 e Bruzzone 379).
L’appello americano è diverso dal nostro
Al contrario del processo di merito è tutto per iscritto, non è un rifacimento del dibattimento e a Forti non è stato negato: anzi ne ha avuti almeno tre, un appello diretto statale (All. 60) e due habeas corpus (All. 74 e 75). C’è stato anche un Amicus Curiae del governo italiano (All. 73); ma negli Usa il processo di merito chiude la vicenda e per annullarlo occorrono solidi argomenti legali che nessuno ha mai prodotto: né ora, né mai.
Il governo italiano
Anche se si dice il contrario i nostri governi si sono occupati del caso Forti fin dall’inizio. Il console Centracchio era presente al processo e non ha mai parlato di sensazione; il viceministro Innocenzi ha compiuto parecchi viaggi in Florida; deputati e senatori hanno fatto interrogazioni fin dal 2000.
Il problema è che non esistono precedenti di criminali comuni aiutati dall’interessamento di un governo straniero e il caso di Rocco Derek Barnabei non è rassicurante. Non è vero che l’allora ministro degli esteri, Signora Clinton, sia intervenuta in favore di Amanda Knox e ricordo che il Presidente Obama può concedere la grazia solo ai condannati federali.
Arriva Tacopina
Incredibilmente Chico Forti non ha mai cercato l’aiuto delle molte organizzazioni che si occupano di innocenti e la ragione è facilmente comprensibile: perché Forti è sfacciatamente colpevole e nessun giurista americano accetterebbe le incredibili idiozie che invece gli italiani si bevono come acqua fresca. Il recente arrivo dell’avvocato Joe Tacopina non cambia lo stato dei fatti e sembra ridursi al suggerimento di trovare 2-300.000 dollari per pagare gli investigatori che cercheranno una inesistente newly discovered evidence. Non si capisce perché aver aspettato tanto per così poco. Inoltre l’avvocato di New York non ha degnato di uno sguardo il lavoro fin qui fatto dagli amici di Forti: lavoro che viene da loro indicato come la soluzione definitiva del caso. Peccato poi che Tacopina non abbia concesso interviste ai media della Florida: se l’avesse fatto Forti sarebbe diventato un caso di rilevanza nazionale in America, perché giornali e tv si sarebbero chiesti perché un avvocato così famoso (legale di Amanda Knox) se ne occupa. Ricordo che dai tempi del processo nessun giornale americano si è più occupato della faccenda.
Chico Forti Santo subito
Nonostante i tentativi di beatificazione portati avanti dai suoi seguaci Forti ha piantato l’Italia e la moglie per cercare fortuna in America, perché “Lì, se sbagli, la legge ti raggiunge ovunque e ti fa pagare quello che meriti” (Matassa 22) e, se dobbiamo dare credito ai suoi amici, Forti frequenta il pregiudicato tedesco Thomas Knott che lo aiuta a entrare in possesso della houseboat di proprietà di altro tedesco problematico Mathias Ruehl; poi corrompe il poliziotto Gary Schiaffo per avere delle improbabili foto e, sempre grazie a Knott, entra in contatto con l’australiano dal passato turbolento Anthony Pike allo scopo di impossessarsi del suo malfamato albergo di Ibiza.
Criminal Law do-it-yourself and forensic bricolage
Nelle trasmissioni televisive e interviste giornalistiche gli amici di Forti ci hanno detto le più incredibili corbellerie pseudo-scientifiche e pseudo-legali. Dallo speed (sic) trial, alla macchina della verità, al guanto di paraffina, dall’identikit alla Regola William, dalla Sentenza Miranda contro Arizona alla Regola 3.250. Non c’è stato ambito legale e forense che non abbiano accuratamente devastato.
The Chewbacca defense
Nei processi americani si presenta alla giuria l’insanity defence o qualcos’altro che cerchi di spiegare il comportamento assolutamente idiota dell’imputato; ma gli amici di Chico oggi adottano una sorta di Mensa IQ total defence, secondo la quale il loro protetto è troppo intelligente per avere fatto le stupidaggini che l’hanno condotto in carcere. Inquietante scoprire (La Repubblica) che al processo la difesa avrebbe proposto l’alibi secondo cui il tedesco Knott si sarebbe fatto passare per Forti e avrebbe preso lui in consegna la vittima Dale Pike.
I rest my case
La vicenda giudiziaria di Chico Forti è morta e sepolta dal 2009, quando sono falliti i tentativi di habeas corpus federale per via dei paletti temporali imposti dalla AEDPA. Ora la richiesta di un nuovo processo può avvenire esclusivamente sulla base di una newly discovered evidence: cioè di una nuova prova determinante che, se fosse stata presentata al dibattimento, ne avrebbe potuto modificare l'esito e che, si dimostri, non poteva essere trovata al tempo del processo. Tutte le prove che sono passate, o che avrebbero potuto passare, davanti ad una corte sono procedural defaulted e non valgono più. Di conseguenza tutte le rimasticature delle vecchie prove che ci sono state fin qui proposte dagli amici di Forti sono prive di qualsiasi valore giuridico.
Considerazioni finali
In un caso giudiziario ci sono molti modi di mentire e gli amici di Enrico “Chico” Forti li hanno usati tutti. Hanno nascosto i fatti, li hanno ignorati, distorti e inventati. Hanno ingigantito dettagli irrilevanti e creato un diritto penale americano immaginario. Hanno prodotto una gigantesca montagna di frottole dietro cui celare l’evidente colpevolezza del loro protetto. L’hanno potuto fare grazie all’incapacità della nostra classe dirigente. Non ci dobbiamo stupire se alcuni sprovveduti incompetenti abbiano sposato le inconsistenti tesi innocentiste del Forti, ma dobbiamo chiederci come sia possibile che tanti politici e giornalisti non si siano minimamente informati prima di prenderne le difese: quando bastava fare una telefonata. Non pretendiamo certo che passino le nottate sui libri di diritto americano, ma ci interroghiamo sulla qualità delle informazioni che utilizzano quando prendono decisioni importanti: quelle dove non vi sono risposte univoche come per Forti, ma in cui si scontrano teorie diverse e, dagli stessi fatti, si traggono conclusioni opposte. L’affare Forti illustra l’incompetenza della nostra classe dirigente e spiega molto più di tante analisi perché siamo finiti in guai così grandi.
Nota bibliografica
Ho utilizzato il termine “Chico Forti” o “gli amici di Forti” per indicare i numerosi personaggi che, a vario titolo, sono intervenuti in sua difesa. Troppo lungo sarebbe poi fare l’elenco delle trasmissioni che si sono interessate al caso Forti, anche perché pochissime hanno un minimo di interesse.
Per una discussione più ampia sul caso Forti.
Lorenzo Matassa. Tra il dubbio e l’inganno. Da Versace al caso Forti. Koiné, Roma, 2007.
Roberta Bruzzone. Il grande abbaglio. Curcu e Genovese, Trento, 2013
Allegati citati nel libro della Bruzzone
Miami Dade County criminal data base
Interrogazione parlamentare 21 giugno 2000
Sentenza d’appello Habeas Corpus 2008
*Claudio Giusti, Membro del Comitato Scientifico Osservatorio sulla Legalità e i Diritti, è stato tra i fondatori del World Coalition Against The Death Penalty. Residente a Forlì, si occupa e scrive di diritti umani, pena di morte e diritto penale Usa. giusticlaudio@alice.it www.astrangefruit.org