Mi ricordo quando da bambina i miei genitori mi riprendevano, spesso con fare perentorio, dicendomi che da tavola non ci si alzava sino a quando non si era terminato di mangiare. Da lì il corollario che mi ha accompagnato per tutta la vita, ovvero che, con le dovute eccezioni, per mangiare e bere bisogna essere seduti a tavola, o al bancone di un bar, tuttalpiù su una panchina al parco. Del resto lo dice anche il Galateo. O più semplicemente, il buon senso. Ne discende lo stupore quando arrivata a New York alcuni anni fa, ho notato che questa sana regola di vita era violata sistematicamente.
Nella Grande Mela la gente mangia e beve camminando, alla fermata dell'autobus, in bicicletta, in auto, nei negozi, e persino sulle carrozze a cavallo che attraversano Central Park. A parte il fatto che anche la medicina sostiene che mangiare disordinatamente fa male, si tratta di una questione di rispetto oltre che di igiene. Questa Voce di New York mi viene di impulso, reduce da una corsa in metropolitana dove sono stata quasi investita da un'onda anomala di salsa dressing che colava dall'insalata della mia vicina. Sì, perché mentre aspettavo la 6 a Grand Central, la ragazza stava mangiando la classica 'cofana' di lattuga, in piedi appoggiata ad un pilone, mentre il suo amorevole fidanzato le reggeva i fazzolettini. E mentre dalla bocca della fanciulla – tutt'altro che taciturna – partivano insidiose meteore verdi, dalla vaschetta colavano rigagnoli dal colore sinistro.
Scampato il pericolo di un bagno nell'unto mi ritrovo schiacciata dalla ressa nel vagone, accanto ad una ragazza con in mano un bicchierone di carta. Solo che anziché coca cola, succo di frutta, o caffe', nel suo c'era del vin brulé. Oltre al fatto che la legge non lo permette, mi chiedo dove abbia trovato un vin brulé on the way nel cuore di Midtown Manhattan. Peraltro, della peggiore specie, una pozione letale dove i fumi di chiodi di garofano rancidi penetravano nelle narici e via di corsa su al cervello. A parte la sistematica ola che dovevo fare per driblare i voli pindarici del bicchiere in questione, e la tutt'altro che piacevole sensazione di stordimento provocata dai fumi del distillato, qui non si tratta di violazione di una regola, ma di 'violenza' nei confronti del prossimo.
Cambio vagone e finisco dalla padella alla brace, o meglio alla friggitrice. Un manipolo di ragazzini appena usciti da scuola faceva incetta di hamburger e patatine che navigavano in ketchup e senape, un trionfo di colesterolo a porter, di cui gli abiti porteranno il segno assai a lungo. Passi per bicchieri XXL di caffè, cappuccino, frappuccino e tra poco anche lattuccino. E poi gelati, cup cake, hot dog, pizza e kebab inglutiti nei posti più "esotici", per mancanza di tempo. Del resto viviamo nella città del rush hour a ciclo continuo. Ma tra gli adepti dello street food, c'è anche chi ama mangiare in movimento a prescindere, come Amy. È domenica mattina, lo sguardo assonnato accomuna me e le altre persone in ascensore. Non quello di Amy, che appena chiuse le porte estrae dalla borsa una banana, la sbuccia e se la degusta compiaciuta, quasi avesse aspettato di uscire per regalarsi quella gioia del palato. Non poteva farlo a casa, qualche minuto prima? Ma tant'è. Forse se il sindaco nanny, Michael Bloomberg, avesse avuto la possibilità di un quarto mandato, dopo la lotta al fumo e ai maxi-beveroni avrebbe dichiarato guerra anche allo street food selvaggio.