Non c’è nulla da fare. Lo vogliono proprio abbattere. O, perlomeno, abbattere quel poco che ne rimane. Parliamo dello Statuto dei Lavoratori, cari lettori e lettrici; parliamo di quella che dagli Anni Settanta agli Anni Novanta fu un’ancora di salvezza per milioni di salariati italiani; una garanzia, insomma; una tutela. Come se non bastasse, mercoledì scorso, il Presidente del Consiglio Monti è venuto a dirci che “lo Statuto non favorisce la crescita”.
Varato nel 1970, lo Statuto dei Lavoratori fu tenacissimamente voluto dal Partito Comunista Italiano (ogni tanto qualcuna ne azzeccava, il Pci…) nel quadro di un periodo storico in cui cominciava a tramontare il vecchio capitalismo costruttivo e già si delineava il neo-capitalismo, oggi responsabile dello sfacelo della Nazione – e anche di mezzo Occidente.
Resta appunto poco di quest’istituto che avrà di sicuro reso più facile ancora la vita ai parassiti, ai pigri, ai furbi, ma che, attraverso le generazioni, seppe assicurare tranquillità e stabilità a chi santi in Paradiso non ne aveva. Il presente è fragile, precario; il futuro, oscuro.
Lo Statuto dei Lavoratori ha subìto anch’esso la furia del ciclone berlusconiano, ma dopo che un socialista (non un liberale nel senso politico italiano del termine), un tal Bettino Craxi, capo del Psi, aveva voluto liquidare la Scala Mobile… Il neo-liberismo così caro agli affaristi dell’Italia contemporanea, soprattutto agli affaristi che si lanciano in politica, ha intaccato, poi eroso, quindi sbriciolato qua e là lo Statuto dei Lavoratori. Gli è andata dietro la quasi totalità delle forze parlamentari, le “larve della democrazia”, come le chiama Beppe Grillo (qui ha ogni ragione), appiattite al cospetto dei loro padroni. “Sì, buana! Certo, buana”!, sottolineava ancora con graffiante ironia il Grillo.
Si diceva poco fa del vecchio capitalismo costruttivo. All’epoca dei Rizzoli, dei Pirelli, degli Olivetti, al licenziamento si ricorreva solo in casi estremi: per esser licenziati bisognava averne fatte di tutti i colori. Nell’apprendista promettente, volenteroso, e nel prestatore d’opera esperto, coscienzioso, si vedevano due figure ‘economiche’, sociali, umane, da valorizzare, tutelare, ricompensare. Fra datori di lavoro e produttori (la manodopera) s’era stabilita già tempo prima l’armonia che fu poi alla base della sfolgorante Ricostruzione Nazionale in seguito alle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Il bravo dipendente, il capitalismo “arcaico” se lo teneva ben stretto. Se lo teneva ben stretto per calcolo economico, certo, ma anche per via di un certo idealismo, di un senso umano che animavano appunto i Pirelli, i Borghi, la Solvay, la Bombrini-Parodi-Delfino; l’ENI, in particolare l’ENI forgiato e guidato da Enrico Mattei.
Dice che poi i tempi cambiano. E’ vero. I tempi cambiano. Negli Anni Settanta balza sulla scena la figura del “giovanilista”. Il “giovanilista” è il quarantenne che circola in jeans, è il quarantenne slanciato, levigato, “sprint”, fermo assertore dell’iniziativa privata. Il tipo è insofferente. Materialista, vuole le mani libere. Non tollera obblighi, vuole solo diritti, i diritti che agli altri però nega con la stessa disinvoltura con cui cerca agevolazioni, favori, “addentellati”. Si forma così una consorteria imprenditoriale i cui capi, alfieri e gregari non smettono di ripetere: “In America fanno così!
Anche in America…! Guardate la Germania… Guardate… Negli altri Paesi, sì… Ma qui da noi…!”. Eppure, gli Olivetti, i Borghi e compagnia bella all’America o alla Germania, all’Inghilterra o al Giappone nemmeno ci pensavano! Facevano all’italiana, che era il modo più naturale, più giusto, di sostenere l’Economia nazionale, curare gli intessi dell’azienda, e curare quelli dei dipendenti.
La matrice dei Berlusconi e di tutti i “rampaging boys” di questo Paese, è proprio il “giovanilismo” di trenta o quarant’anni fa. Stanno vincendo loro. Quelli, appunto, che vogliono “le mani libere”. Ma non certo per provvedere alle necessità della Nazione.