Che meschina e ipocrita è la “solidarietà di casta”, termine eufemistico che potrebbe benissimo essere sostituito con uno più esplicito di appena cinque lettere (ma vediamo di evitare le querele). Mi riferisco alla vicenda di Federico Aldrovandi, il ragazzo ferrarese che una notte del 2005 rientrando a casa da una discoteca venne inspiegabilmente ucciso a suon di botte da quattro poliziotti.
Questi sono stati condannati ma, in attesa della sentenza definitiva – o di non so che altro cavillo giuridico – restano tuttora in servizio. La parte più brutta di questa brutta storia però è iniziata dopo e sembra non voler finire. Contro la madre che chiedeva giustizia si è scatenata una sottile ma velenosa campagna. La donna ha avuto un giusto risarcimento monetario, anche se nulla le ridarà il figlio, e ha ottenuto le scuse dello stesso capo della polizia con l’assicurazione che i quattro agenti, tra cui c’è anche una donna, se condannati sarebbero stati espulsi.
Cosa che, come dicevo, non si è ancora verificata. Ma nel frattempo, su Facebook e altrove, agenti e (cattivi) simpatizzanti delle Forze dell’ordine si sono vergognosamente scagliati contro la signora. Fino al culmine: uno dei quattro poliziotti responsabili dell’assassinio ha messo sulla sua pagina di Facebook delle frasi davvero ingiuriose contro di lei. Il ministro degli Interni, Annamaria Cancellieri, ha definito «vergognose e gravemente offensive» le parole del poliziotto. Ha fatto bene. Ma la sua giusta indignazione non sembra avere scalfito certi ambienti della Polizia.
Uno per tutti: Nicola Tanzi, segretario generale del SAP il sindacato autonomo della casta (pardon: della categoria), in un’intervista al quotidiano Metro si è mosso con altera sicurezza lungo il confine tra gesuitismo e ipocrisia. I quattro sono ancora in servizio? Commento: «La Polizia rispetta la legge e la legge dice che il provvedimento disciplinare parte alla fine dell’iter giudiziario». Ma qui si tratta della morte di un ragazzo innocente per mano e manganelli di quattro agenti e la foto di quel volto e quel corpo sanguinante è sotto gli occhi di tutti, basta navigare su internet. Risposta capolavoro: «La legge dice così: qui stiamo parlando di omicidio colposo, che tecnicamente è paragonabile a un incidente stradale». Tecnicamente, insomma, è come se il giovane Federico avesse perso la vita per via di un’automobile slittata su una macchia d’olio. Ma questa è una macchia che resterà a lungo sulle divise blu dei cattivi colleghi del grande – e perbene – commissario Montalbano.
GLI ANNIVERSARI HANNO DI BUONO che servono a non dimenticare. Sono passati 32 anni dalla strage di Ustica,
il tuttora non chiarito disastro aereo in cui persero la vita 81 persone nel cielo tra le isole di Ustica e Ponza. Era il venerdì 27 giugno 1980, quando l’aereo di linea Douglas DC-9, codice I-TIGI, appartenente alla compagnia aerea italiana Itavia, si squarciò in volo all’improvviso e scomparve in mare. Anni di indagini e processi non sono serviti a nulla. Ma l’opinione pubblica almeno due cose le ha percepite, a dispetto degli insabbiamenti: non è stato un incidente meccanico ma un sabotaggio voluto e, dietro, quasi certamente c’è una mano straniera.
Va letta così la parte del discorso inserita fra due trattini che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha dedicato alla vicenda: «È indispensabile che le istituzioni tutte profondano ogni sforzo – anche sul piano dei rapporti internazionali – per giungere a una compiuta ricostruzione di quanto avvenne quella drammatica notte». Ne riparliamo al 33esimo anniversario?