Nella foto Il lager di Bolzano
All’alba del dodici settembre 1944 dal Campo di Concentramento Bozen di via Resia, allestito nel quartiere di Gries, ventitré prigionieri vennero prelevati e condotti presso la Caserma di Artiglieria “Francesco Mignone”, in zona Oltrisarco a Bolzano. Provenivano tutti dalle carceri di Verona, situate in diversi luoghi della città, dal carcere degli Scalzi, a luoghi divenuti detentivi in quelle circostanze buie, tra i quali le celle del Palazzo INA, sede del Sicherheitsdienst (SD) e della Gestapo. Tra la fine d’agosto e i primi di settembre del ’44 essi erano convogliati a Bolzano, che costituiva con le province di Belluno e Trento, per volontà di Hitler che l’aveva stabilito con un’ordinanza l’undici settembre del ’43, la Zona di Operazioni nelle Prealpi, Ozav. Ai ventitré fu da subito riservato un trattamento diverso dagli altri internati del Campo di Bozen, essi mantennero i loro indumenti, non vennero immatricolati e non fu chiesto loro di lavorare; rimasero sempre uniti, in un blocco separato dagli altri detenuti, senza mai uscire, se non per essere uccisi. Nelle stalle della Caserma Mignone, venne sparato a ciascuno di loro un colpo alla nuca, i corpi, privati di ogni segno identificativo, furono gettati in
un’unica fossa, poi coperta di terra, nel cimitero comunale di Bolzano.
Fu un eccidio dimenticato fino a quando l’Archivio Storico della Città di Bolzano, non decise, nel 2004, di avviare una ricerca storica che recuperasse la conoscenza del luogo di esecuzione sul quale vi erano incertezze, luogo oggi ricordato da una lapide posta su uno dei muri superstiti della Caserma Mignone, abbattuta nel ’99. Per sessanta anni, ha ricordato la dott.ssa Carla Giacomozzi, funzionaria dell’Archivio Storico di Bolzano, autrice di un bel volume dedicato all’eccidio dei ventitré, non si è nemmeno tentato di indagare sulla vicenda. Le ragioni che mossero alla ricerca sono da rintracciare in due diversi fattori: una relazione iscritta del ’45, ad opera di don Daniele Longhi, e la circostanza che due lapidi, contenenti i ventitré nominativi, poste presso il Cimitero Militare di San Giacomo, a Bolzano, non recassero date, indicazioni sulle cause della morte, né informazioni di alcun tipo. Lo stesso sacerdote, l’anno successivo alla strage, compose l’elenco dei nominativi che, sottoposto a verifica, ha rivelato ventitré identità, individui provenienti da diverse località del territorio italiano, la maggior parte dei quali militari di professione, tutti accomunati dalla scelta, operata all’indomani dell’otto settembre del ’43, di non appoggiare la Repubblica Sociale o i nazisti.
Sulla tragica vicenda vi sono ancora dei punti oscuri importanti, per esempio, un aspetto che dovrà essere chiarito in futuro è quello della responsabilità dell’eccidio, di chi ha firmato per la decisione di uccidere. E’ nota una parte delle testimonianze dell’ex comandante del lager, Karl Gutweniger, che aveva partecipato al commando, vi sono delle testimonianze su chi avrebbe eseguito materialmente l’eccidio, ma la responsabilità burocratica è ancora tutta da chiarire.
Vilores Apollonio, nativo di Pola, era il più giovane dei ventitré, aveva ventuno anni quando lo uccisero; il più anziano era Guido Botta, un militare di Bari di anni quarantanove, che non risulta facente parte di alcuna missione. Il primo era coinvolto nella missione “Prune team Lemon/ Radio Lupo”, organizzata da ORI e OSS, allo scopo di svolgere compiti informativi in Alto Adige. Alla stessa missione prese parte Domenico Montevecchi, sarto di Faenza, che troverà la morte con Apollonio nell’eccidio alla Mignone.
La storia di questi ventitré è una storia esplosiva perché la maggior parte di essi fanno parte di missioni, erano a disposizione del Servizio Informazioni militari del governo Badoglio, che era in collaborazione con gli alleati angloamericani. Vennero, infatti, organizzate delle missioni clandestine da inviare nel territorio dell’Italia occupata del centro-nord: la missione di cui fece parte Gian Paolo Marocco, di Varese, ventiquattro anni al tempo dell’eccidio, era una missione che fu importantissima per la Resistenza in tutto il Veneto, una missione di carattere informativo chiamata Rye, partita dal porto di Brindisi, a bordo del sommergibile italiano Nichelio alla fine di novembre del ’43.
Un tema scottante, affrontato anche dallo scrittore e saggista statunitense Peter Tompkins, nel libro L’altra resistenza, in cui rileva come vi fossero tre missioni al completo, un unico sommergibile, il Nichelio appunto, e le missioni Rye, Orchard, Rick, con l’alta possibilità, durante lo sbarco, di una cattura degli agenti impegnati nelle missioni. Tompkins menziona nel suo libro anche Antonio Pappagallo, uno dei ventitré, nativo di Molfetta e domiciliato a Roma, marconista nella missione di carattere informativo Nino La Fonte Chain, scopo di tale missione era quello di stabilire e mantenere il contatto radio con la Quinta Armata americana in vista della liberazione di Roma.
Non è noto il nome della missione di cui fece parte il maresciallo del regio esercito, Domenico Di Fonzo, nativo di Campodimele, si sa che la missione fu organizzata dagli americani, poiché la famiglia ricevette nel ’47 una lettera dal governo americano (Claims officer Myrtle V. Quinn) che elogiava il ruolo svolto da Di Fonzo all’interno delle Forze Armate degli Stati Uniti. Rivestiva, invece, un carattere di sabotaggio la missione Advent, nata dalla collaborazione tra SIM e No.1 Special Force, a cui presero parte due caduti nell’eccidio del dodici settembre, Pompilio Faggiano di San Donaci ed Ernesto Paiano di Maglie.
Nella missione Dulwich/ Ambleside, il cui carattere non è noto, nata dalla collaborazione delle stesse componenti che organizzarono Advent, furono impegnate altre due vittime dell’eccidio: Francesco Battaglia, di Bitonto e l’aviere Tito Gentili di Fano. Dante Lenci di Arcevia, altro caduto del 12 settembre, ex ufficiale della regia marina, era impegnato nella missione, di matrice interamente statunitense, OSS, Croft, di carattere informativo, avente lo scopo di collegare la Resistenza toscana con il Regno del Sud. Cesare Berardinelli e Antonio Baldanello parteciparono alla stessa missione Alleata Berardinelli/Rick, nata dalla collaborazione tra SIM e ISLD, uccisi anch’essi alla Caserma Mignone, il primo militarBe veneziano, il secondo bolognese studente di musica, oltre che militare.
Permangono ancora sconosciuti i compiti della missione dell’Office Strategic Services, Prune/team Grape I, che vide al lavoro due delle vittime dell’eccidio, Antonio Fiorentini di Bologna e Domenico Fogliani di Reggio Emilia, l’uno comandante della missione, l’altro marconista. La missione Viola, matrice statunitense, di tipo informativo, prende il nome da Margherita Mezzi, agente, unico componente oltre al comandante Francesco Colusso, nativo di San Michele al Tagliamento, tenente di complemento del 26° reggimento di Fanteria a Latisana, maestro elementare, laureando in giurisprudenza, catturato dai tedeschi, secondo il documento americano, sbarcando da un sottomarino a Caorle, insieme alla Mezzi, che fu poi liberata.
Singolare la vicenda vissuta da Andrea Dei Grandi, veneziano, motorista navale, catturato una prima volta nel giugno del ‘40 dagli inglesi in Mar Rosso, insieme all’equipaggio del sommergibile Galileo Galilei. Prigioniero, fu inviato in un campo di concentramento a Bombay, ma era in Egitto alla data dell’armistizio, come prova la lettera che il Maggiore inglese John Polimeni scrisse alla famiglia Dei Grandi. Andrea, non ancora venticinquenne il giorno dell’eccidio, si era offerto volontario per un servizio speciale presso gli Alleati, un’organizzazione, composta da ex prigionieri di guerra evasi, per il salvataggio del territorio italiano, occupato dai nazifascisti. La sorte, dopo tante vicissitudini, decise di farsi beffe del suo coraggio, della sua intraprendenza, lasciando che, dopo un lancio con il paracadute, un fascista lo derubasse, arrestandolo e denunciandolo ai tedeschi.
Il modenese Annibale Venturi, militare non di professione, era impiegato in una distilleria a Ferrara e voleva far parte di qualche missione, ma non vi riuscì, il capitano inglese Cooper lo interrogò, non venne comunque ingaggiato e si ignora quel che fece dopo il fallito contatto con il No. 1 Special Force, e come venne arrestato.
Militare marconista e panettiere, Angelo Preda, di Monza, si trovava in Sicilia con l’esercito, giunti gli inglesi , vi collaborò; quasi sicuramente era impegnato in una missione di Intelligence, di cui non si conosce il nome, fornendo informazioni agli inglesi sugli spostamenti delle truppe tedesche. Fu denunciato e sorpreso in casa con il materiale di lavoro dai fascisti, arrestato, finì a San Vittore e, dopo vari spostamenti, da Verona giunse a Bolzano.
Del padovano Milo Pavanello, delle sue attività militari, non si conosce quasi nulla se non che era elettrotecnico nel regio esercito e disegnatore, e che finì recluso a San Vittore con Angelo Preda, uscirono, infatti, lo stesso giorno. Si ipotizza che possa avere operato con lui per il servizio segreto britannico, dato che li ritroviamo entrambi tra le vittime del dodici settembre. Sergio Ballerini, Ferdinando Ferlini e Ernesto Pucella, paracadutisti della divisione Folgore, parteciparono alla battaglia di El Alamein, vennero fatti prigionieri dagli alleati e trasferiti nei campi di prigionia in Egitto. Si ignora come fossero giunti a Bolzano, non si ha nemmeno notizia di loro come agenti segreti degli alleati; i dati biografici riferiscono che Sergio Ballerini era un militare di Firenze, Ernesto Pucella, nativo di Castel Madama, era soldato dell’ottantunesimo Reggimento Fanteria, mentre di Ferdinando Ferlini non si ha alcun dato anagrafico.
Quasi certamente non fu una rappresaglia, i ventitré non furono uccisi a caso per vendicare altre morti, si trattò, invece, di una strage organizzata, in cui le vittime furono scelte per essere uccise, a motivo delle posizioni assunte dopo l’otto settembre del ’43.
Ha detto Marietta Di Fonzo, terzogenita di Domenico, che non ha mai conosciuto suo padre, durante la commemorazione: “Mi sonosempre sentita un’orfana di guerra, oggi, per la prima volta nella mia vita, ho sentito di avere un padre, di averlo avuto, la mia infanzia è stata il vuoto della sua assenza”. Rossana Pappagallo, secondogenita di Antonio, ha sottolineato il dolore di “quel dover fare senza,” per il quale non c’è narrazione possibile, mentre Alessandro Berardinelli, uno dei due figli di Cesare, ripeteva come una litania: “Sono nato con questo dolore, dall’infanzia ho avuto questo dolore”.