Nella vivace cornice di Italy on Madison tanto spazio è dedicato al cibo. Nella sede dell’ITA di New York, introdotti dal Direttore Antonino Laspina e moderati dal giornalista John Mariani, hanno preso parte al panel “Italian Restaurants in America: Where Are We Heading?” i ristoratori Fabrizio Facchini, Marisa Iocco e Gianfranco Sorrentino, oltre al professore di NYU Fabio Parasecoli.
“Il vero Made in Italy è un valore che va protetto a tutti i costi e difeso dagli attacchi dell’Italian sounding”, ha ricordato in apertura il Direttore Laspina. Un tema, quello dell’autenticità, su cui Laspina più volte ha insistito nel suo operato negli Stati Uniti.
“Sono arrivata qui 30 anni fa – ha invece raccontato Iocco – all’epoca era molto difficile essere una donna e lavorare in grandi cucine insieme a tanti uomini. Quando sono arrivata a Boston non parlavo inglese e il mio unico modo per comunicare era attraverso il cibo. Nei primi anni, i critici culinari ripetevano che il cibo che servivo, quello italiano (come il risotto o il baccalà alla ligure) non esisteva in America e non avrebbe mai avuto successo. A distanza di anni, posso dire con certezza che si sono sbagliati. Nelle cucine ormai i piatti italiani sono conosciuti, ma le difficoltà sono altre: dopo la pandemia è sempre più difficile trovare ingredienti di qualità, così come personale”.

Necessità di persone qualificate condivisa anche da Sorrentino, secondo cui la soluzione è “essere più presenti nelle scuole, insegnare ai ragazzi la cultura del cibo, le tecniche necessarie per diventare chef. Dobbiamo educare anche le persone, che quando vengono nei nostri ristoranti devono comprendere il motivo per cui la ristorazione ha determinati prezzi”.
Un problema, quello della crescita di costi per materie prime e personali, che ha colpito in particolare New York (diventata nel frattempo la città più cara del mondo) e che ha portato molti ristoratori a spostarsi dalla città, come ha ricordato Facchini. “Non tutti gli chef sono a Manhattan: io, ad esempio, ora lavoro a Long Island, ma anche tanti miei colleghi, dopo il covid, si sono spostati a nord, fuori dal caos della città”.
“Ciò che non possiamo ignorare – ha concluso Parasecoli – è che per promuovere la cucina italiana e le sue prelibatezze, che non solo soltanto pizza, pasta e tiramisù, occorrono delle strategie di marketing e comunicazione. Nel mondo di oggi il cibo è a tutti gli effetti parte del soft power. Non è un caso che un paese come la Corea del Sud abbia investito milioni per promuovere la sua cultura alimentare. L’Italia, con il suo immenso patrimonio gastronomico, deve fare lo stesso”.