Entrare all’inferno a dare un’occhiata non è difficile, basta pagare il Caronte di turno. Nel nostro caso, è l’uomo che ci avvicina all’ingresso della discarica di Bamako, la capitale del Mali, chiedendoci del denaro per i suoi servigi di accompagnatore. Non è una cifra importante e, come capiamo addentrandoci in questa sorta di grande ferriera di fango, sudore, scintille, ci dà il diritto di curiosare, persino di scattare foto. Senza che nessuno si lamenti. Anzi, senza nemmeno essere inseguiti dall’esercito di bambini e di venditori ambulanti che sempre, in Africa, si mettono alle calcagna del toubab, il bianco, come lo chiamano qui.
La ferriera
La discarica, ai margini del mercato cittadino, si sviluppa ai piedi di una scarpata, formata dalla collina di Kolo. Agli occhi del visitatore, un girone dantesco di battilamiera, saldatori, riciclatori selvaggi di ogni frammento metallico – di ogni latta, cavo, coperchio, bullone, sbarra – si possa recuperare dagli oggetti ormai finiti, che il mercato ammucchia quaggiù. Enorme officina ed insieme impianto di riciclaggio a cielo aperto, questo luogo è lo stomaco digestore della città.
In cima, proprio a ridosso della parete rocciosa, avviene la selezione del materiale, tra i cumuli di rifiuti. Più in basso, sotto a tettoie di lamiera o dentro ad edifici in muratura, via via più solidi man mano che ci si avvicina alla strada asfaltata, si aprono le botteghe dei fabbri e degli artigiani che dagli scarti forgiano, detto un po’ retoricamente (ma non troppo) nuovi aratri e nuove zappe, assieme a mille altre cose. Del resto, in Africa non si butta via nulla. Noi a questa idea ci stiamo arrivando con un po’ di ritardo. Quindi, almeno su questo piano, l’Africa ha qualcosa da insegnare.
Ma Bamako non è l’inferno. È, tutto sommato, una città interessante, in un continente nel quale, di solito, le bellezze maggiori stanno al di fuori delle cinte urbane. Oggi si festeggia l’Indipendenza dall’ex-potenza coloniale, la Francia, conquistata il 22 settembre del 1960. Bussiamo alle porte di un villaggio Sos, che raccoglie i bambini di strada. Ma i bambini sono tutti allo stadio; hanno provato per mesi uno spettacolo da mettere in scena fra il primo e il secondo tempo della partita, ci spiegano. Nella società africana tradizionale la figura dell’orfano era quasi sconosciuta, la famiglia allargata si faceva comunque carico dei più piccoli se i genitori venivano a mancare. La pressione di forze come l’inurbamento selvaggio e la diffusione dell’Aids hanno fatto saltare gli antichi equilibri.
Oggi, però, è festa e anche i problemi quotidiani si prendono una pausa. Niente farebbe pensare che siamo nella capitale di un paese a rischio, che le ambasciate sconsigliano di visitare. Adagiata sulle rive del Niger, il terzo fiume dell’Africa dopo il Nilo e il Congo, Bamako sembra vivere la sua vita di sempre, fatta di traffico, mercati, cantieri. E musica: afrobeat, reggae, anche rap duro, politicizzato, memore della lezione dei classici americani, e riveduto alla luce delle esperienze dei migranti, approdati in Europa dopo viaggi spesso mortali attraverso Algeria o Niger, quindi Libia e mar Mediterraneo.
L’ultima volta che Bamako ha fatto parlare di sé è stato il 20 novembre 2015, per l’attacco sferrato dal gruppo salafita al-Murabitun, fondato da Mokhtar Belmokhtar, all’hotel Radisson Blu, dove solitamente scendono gli occidentali. L’attacco seguiva quello di qualche giorno prima al Bataclan di Parigi. Risultato: una ventina di morti, e oltre 150 feriti. Ma anche, come ci dice sconsolato Dolò Lesserou, la nostra guida, una pietra tombale su qualsivoglia tentativo di rilanciare il turismo nel Paese.
Il popolo della falesia
Dolò discende da un lignaggio di capi Dogon, il “popolo della falesia” studiato dall’antropologo Marcel Griaule, i cui costumi sono stati raccontati in un classico dell’antropologia degli anni ‘40, Dio d’acqua. La storia è nota, forse anche troppo: Griaule visitava i Dogon da una quindicina di anni, capendo molto poco. Finalmente, un anziano, reso cieco da un incidente di caccia, Ogotemmeli, decise (o venne incaricato, la disputa fra gli esperti è ancora aperta) di raccontare tutto: credenze religiose, cosmologia, valori simbolici nascosti nella pianta dei villaggi, persino, è pure il caso di dirlo, il perché dell’escissione, la crudele pratica dell’esportazione del clitoride, considerata un residuo maschile da rimuovere per rendere possibile la congiunzione originaria, dalla quale scaturisce l’ordine del mondo (un ordine gemellare), nonché l’animale totemico, la iena.
I Dogon in verità divennero famosi nei circoli esoterici occidentali anche per un altro motivo: pare che conoscessero l’esistenza della stella Sirio B secoli prima degli europei, e ovviamente senza l’ausilio di apparecchi sofisticati come il telescopio Hubble. Sia come sia, la cultura di questo popolo, assieme alle straordinarie moschee di terra di Djenne e Mopti, era diventata un’attrazione turistica non indifferente per gli amanti dei viaggi di scoperta e dei trekking. Tutto questo fino al 2012.
L’ombra della Jihad
Dolò è il nipote di Diangouno, l’interprete che agevolò le conversazioni fra Griaule e Ogotemmeli. Suo nonno, perciò, è parte integrante della storia di questo Paese, che lui conosce alla perfezione per averlo fatto visitare a migliaia di turisti, a piedi, in jeep o sulle pinasse, le lunghe piroghe che partono da Mopti e in due o tre giorni consentono di raggiungere Timbuctu, seguendo il corso del Niger. “Prima”, Dolò veniva in Italia due volte all’anno, per presentare il Mali nelle fiere di settore, da Rimini a Milano. La sua era un’impresa florida, che dava lavoro a diverse persone, in Africa e anche in Europa. E oggi? Nulla più. Nel “maledetto 2012” due eventi, strettamente collegati, hanno scosso il paese fin dalle fondamenta: il colpo di stato con cui i militari hanno deposto il presidente Touré e l’offensiva degli indipendentisti tuareg nel Nord, nell’Azawad.
Su tutto questo ha steso la sua ombra la jihad islamica, in alcune delle sue incarnazioni (fra cui Al Qaeda nel maghreb Islamico, nata all’epoca della guerra civile in Algeria).L’Islam praticato in Mali, fortemente commisto con le tradizioni animiste locali, non ha mai assunto i caratteri del salafismo o, detto genericamente, dell’integralismo (inteso come integrale adesione ad una parola, ad una scrittura, o ad una interpretazione della stessa). Tuttavia nel Nord, approfittando dello stato di confusione generale, alcuni gruppi jihadisti hanno presto stabilito la loro egemonia, anche sugli stessi Tuareg che fin dagli anni ’60 del secolo scorso rivendicano una maggiore autonomia dal governo centrale (molti dei quali nel frattempo erano rientrati dalla Libia, dove avevano supportato il regime di Gheddafi). Nei territori che via via conquistavano, gli integralisti hanno imposto la sharia, con pratiche come l’obbligo della hijab per le donne, il taglio delle mani ai ladri, il divieto di fare musica. Divieto particolarmente astruso, quest’ultimo: il Mali è il paese dei griot, i cantastorie che narrano in musica le genealogie dei clan, di cui è stato erede il grande Ali Farka Toure, che incise con Ry Cooder uno dei più famosi dischi di world music degli anni 90, Talkin’ Tumbuctu, e che assieme ad altri musicisti provenienti da tutto il mondo animava fino a qualche anno or sono il famoso Festival del deserto. Ci è andato anche Jovanotti, Dolò se lo ricorda: “Girava da solo per la città, non voleva neanche la guida. E se incrociava degli italiani si nascondeva”.
Vecchi coloni
L’anno successivo, il 2013, è intervenuta la Francia, con l’operazione Serval, poi divenuta missione Onu Minusma, che oltre a ricacciare indietro i gruppi islamisti ha anche garantito lo svolgimento delle nuove elezioni presidenziali. E la Francia è ancora lì, come possiamo constatare anche noi: i soldati francesi sono gli unici toubab che incontriamo nelle strade e nei ristoranti di Bamako, assieme a qualche cooperante e ai diplomatici. La loro, mormorano i maliani, non è una presenza del tutto disinteressata: “Con la scusa di liberarci dagli jihadisti sono tornati in forze nel nostro Paese, e oggi in certe regioni neanche i nostri soldati possono metterci piede”. In queste regioni sono presenti uranio, petrolio, e altre risorse naturali. Con le relative compagnie – francesi e non solo – che si occupano del loro sfruttamento.
Fabio Pipinato, di IPSIA Trentino che partecipa a un progetto di cooperazione in quest’area, lo scorso anno ha partecipato ad un progetto di mediazione fra le parti: “In verità – mi racconta – trovare un accordo con i Touareg non sarebbe impossibile. Basta negoziare sulle royalties. Loro non sono in grado di sfruttare autonomamente i giacimenti minerari, ma non vogliono nemmeno essere completamente esclusi dalla partita. Con i jihadisti è diverso, perché sono mossi da altri valori. Per loro l’unica via d’uscita è la conversione, la sottomissione alla loro idea di Islam”.
Segou città d’arte
L’arte come antidoto ai fantasmi della guerra: potremmo sintetizzare così quello che vediamo a Segou, la località più piacevole lungo la rotta verso il Nord. Segou è una città a pianta quadrata, anch’essa sdraiata sulla sponda del Niger ma, a differenza di Bamako, silenziosa e di impronta nettamente rurale. Ex-capitale dell’antico impero Bambara, allinea lungo un viale alberato alcuni dei più splendidi esempi di architettura sudanese, ex-edifici dell’amministrazione coloniale francese dalle linee pure ed essenziali, quasi un incrocio fra Africa e Bauhaus, oggi in parte riutilizzati dal governo locale, in parte lasciati ad una morbida decadenza.
Ma questo pomeriggio c’è qualcosa di nuovo: l’inaugurazione di Segou’ Art, una tre giorni dedicata all’arte contemporanea che raccoglie contributi da ogni parte del mondo, Italia compresa. Le opere sono esposte in varie sedi cittadine, ma si concentrano soprattutto in una serie di ex-magazzini sulla riva del fiume. Fa una certa impressione vedere l’equipaggio di una pinassa gettare la rete da pesca nelle acque del Niger – un gesto vecchio di secoli – a due passi da quadri e installazioni che non sfigurerebbero a Londra o a Parigi.
Assistiamo al noto cerimoniale dei discorsi delle autorità e del taglio del nastro, uguale ad ogni latitudine. Poi visitiamo le sale, mescolandoci agli artisti e alle artiste, molte africane e anche alcune toubab, riflettendo sul fatto che è ben difficile immaginare qualcosa di più lontano dalla mentalità ristretta, bigotta, degli integralisti da una manifestazione dedicata all’arte contemporanea, un’arte concettuale, astratta, libera.
La moschea di terra
La perla del Mali centrale è Djenne, la “città di fango”, patrimonio UNESCO, che ospita una moschea considerata il più grande edificio in terra del mondo. Raggiungerla non è semplice: bisogna imbarcare la jeep su un traghetto per attraversare il Bani, un affluente del Niger, ma il fiume è straripato e dobbiamo affrontare a nostro rischio un tratto di guado. Alla fine, comunque, approdiamo a questo vero “gioiello”, che è stato e rimane anche uno snodo commerciale importante.
La moschea è una visione quasi fiabesca. In questa versione, è dei primi del ‘900, ma è stata nei secoli più volte riedificata. Tutti gli anni vene sottoposta a manutenzione da parte degli stessi abitanti, nel corso di quella che è anche una grande festa collettiva. Ci fanno entrare nel camminamento interno, oltre la prima cinta muraria, un onore. Poco di quello che ci circonda dev’essere diverso rispetto a come doveva apparire qualche centinaio di anni fa. O forse allora il Mali era più ricco, se è vero che quando Mansa Musa, uno dei primi musulmani alla guida dell’Impero, fece il suo famoso pellegrinaggio alla Mecca – siamo nel 1324 – si portò dietro tanto oro da provocare nelle terre attraversate dalla sua carovana un’inflazione epocale.
Il timore oggi è di tutt’altro genere, riguarda la sopravvivenza stessa di queste vestigia storiche. A Timbuctu, durante la breve occupazione dei fondamentalisti di Ansar Dine, diversi mausolei sono andati distrutti. A questo proposito: mentre siamo in viaggio ci raggiunge la notizia che il Tribunale dell’Aja ha inflitto 9 anni di carcere ad Ahmad Al Mahdi Al Faqi, uno dei responsabili (nel frattempo pentito) di quelle distruzioni. “Ben fatto”, dice chi in Mali viveva di turismo, e vorrebbe tornare a farlo. Ma è una battaglia che non si può combattere solo nei tribunali, né solo con gli eserciti. Senza contare che il terrorismo non è l’unica minaccia che i monumenti del Mali devono fronteggiare. Pare che qualche anno fa una grossa ONG americana, constatato che gli edifici di terra dovevano essere sottoposti a continua manutenzione, abbia deciso di ristrutturarne uno in maniera definitiva: con il cemento. “Adesso – hanno concluso, orgogliosi, consegnando l’opera ai maliani – non dovete pensarci più”.
Migrazioni interne
Arriviamo a Sevarè, un’altra città rimasta vittima lo scorso anno di un attacco dei jihadisti ad un hotel, il Byblos, che ha fatto 13 morti, compresi 5 funzionari ONU. La missione cattolica delle Suore operaie non è un’oasi ma un centro propulsore di iniziative apprezzate e appoggiate sia dalla popolazione locale sia dalle autorità. Qui – come altrove in Africa, continente multiculturale per eccellenza – la convivenza fra musulmani e cristiani sembra cosa fatta.
Ci accoglie suor Erminia, di Brescia, che prima di venire in Mali ha trascorso molti anni in un altro paese difficile, il Burundi, da dove provengono anche le altre sorelle: in passato, dopo un periodo di formazione in Italia, all’ENAIP di Riva del Garda, aprirono la prima scuola alberghiera del Burundi. In Mali lavorano soprattutto con le ragazzine – alcune anche di soli 10, 11 anni – provenienti dai villaggi rurali, arrivate in città per mettersi a servizio delle famiglie di Sevarè e della vicina Mopti, la “Venezia del Mali” che piacque così tanto a Gianni Celati (come racconta nel suo splendido diario di viaggio Avventure in Africa). Generalmente analfabete, qui trovano un po’ di istruzione ma anche un luogo in cui riunirsi nei rari momenti di pausa che i datori di lavoro concedono loro.
A due passi dalla parrocchia, l’associazione creata dalla nostra guida, Giru Yam (“progresso e sviluppo”), assieme ad una controparte italiana, IPSIA del Trentino, ha deciso di recuperare un ex-hotel, abbandonato dopo il crollo del turismo e una passata epidemia di Ebola, trasformandolo in un ostello per le ragazze profughe dai territori del Nord. L’edificio, di due piani, sorge strategicamente di fronte ad un grande complesso scolastico, e viene rimesso in sesto da una ditta locale. “La guerra e il divieto di studiare imposto dagli integralisti alle ragazze fanno sì che le famiglie, se non possono lasciare le loro case, cerchino almeno di portare qui le figlie – mi spiega ancora Fabio – perché continuino a frequentare la scuola. Sono, nel nostro linguaggio, ‘migranti interne’, non del tutto prive di mezzi ma spesso disorientate dal nuovo ambiente”. Nuovi bisogni creati da una realtà in rapido mutamento.
Nella terra dei Dogon
Nel nostro albergo di Mopti è sceso anche il ministro della Difesa, con i suoi generali. Non sappiamo se questo sia un bene – il posto si è riempito di soldati e fuori adesso staziona un autoblindo – o un male, perché ci trasforma, nostro malgrado, in possibili bersagli. Tuttavia la notte trascorre tranquilla e al mattino riusciamo anche a fare colazione, sottraendo qualche croissant alla voracità dei militari.
Andiamo a Bandiagara, nel cuore della terra Dogon. Qui Dolò è a casa sua, e si vede da come affronta la pista che ci conduce attraverso l’altopiano fin sul bordo della falesia, una spettacolare scogliera di roccia che si allunga per oltre 200 chilometri. Tuttavia, neanche la sua perizia, e la sua conoscenza del territorio ci salvano dall’impantanamento. Dobbiamo andare a piedi al villaggio più vicino a chiedere aiuto, per liberare la jeep dalla morsa del fango, causato dalle piogge recenti. Alla fine, però, arriviamo a destinazione: siamo a Yassing, uno degli ultimi villaggi in territorio Dogon, prima del confine con il Burkina Faso.
In questa zona la provincia di Trento, assieme alle ACLI, ha aperto una scuola. Ma soprattutto, un paio di anni fa, l’Italia ha fatto arrivare qui, con un intervento di emergenza, due camion di riso, che hanno consentito alla gente di superare la carestia, dovuta all’effetto combinato della siccità, della guerra, dei massici spostamenti di popolazione. Il timore della gente era di fare la fine del Biafra, la cui memoria qui è evidentemente ancora molto forte. Gli aiuti arrivati dall’Italia non sono stati dimenticati, e si vede: la gente di Yassing oggi accoglie i bianchi con il calore che l’Africa ben sa, con le danze, i canti, il ritmo delle percussioni. Noi fotografiamo loro, loro fotografano noi; siamo tutti esotici agli occhi di qualcun altro. “Possiate avere sempre un letto, una compagna, e la potenza per fecondarla”, ci dice un anziano. Gli fa eco la sua controparte femminile, con un augurio che la nostra guida è restia a tradurci, e che dovrebbe avere a che fare con la rigidità del nostro membro virile. Certe campagne sulla fertilità sarebbero più efficaci se a realizzarle fossero persone come queste.
Si possono fare discorsi molto sofisticati sulla cooperazione allo sviluppo, insistendo su concetti come “sostenibilità” o “reciprocità”, ed è certamente bene farlo. Tuttavia, alla fine, la realtà è spesso disarmante: un piccolo aiuto, partito da lontano, un aiuto generato da una delle mille reti che l’associazionismo e i movimenti migratori intessono incessantemente fra Nord e Sud del mondo, ha fatto la differenza fra la vita e la morte. Un altro aiuto può far sì che in un villaggio arrivi la luce – i pannelli solari ormai sono molto diffusi anche in Mali e in Burkina – o che un ospedale possa salvare delle vite che altrimenti andrebbero perdute. Il tutto però con estrema cautela. È vero – come scrive giustamente Marco Aime, uno dei massimi conoscitori di queste zone – che il mondo Dogon è tutt’altro che immutabile. Al contrario, è anch’esso immerso nei flussi della storia e dei cambiamenti, ben oltre la sua “griaulizzazione”. Ma il monito lanciato da quella moschea di terra restaurata con il cemento va sempre tenuto presente: anche a voler fare del bene si possono fare disastri. La storia dei rapporti fra l’Europa e il resto del mondo è piena di storie così, anzi, di storie ben peggiori.