Il profumo delle crispelle calde e di tutto lo street food siciliano, rimane anche quest’anno un lontano ricordo.
E’ quasi un memoir il mio Natale in Sicilia da quando mi sono trasferita negli Stati Uniti.
Questo è il mio secondo anno nel cuore dell’America profonda.
Siamo nel Midwest, in quella terra che per gli americani viene definita “il granaio degli Stati Uniti”. Per molti, l’Iowa è “in the middle of nowhere”, rurale, lontana, sconfinata.
L’americano colto della East Coast e quello progressista della West Coast hanno coniato un’espressione: surfing Iowa.
Immense distese di grano si perdono all’infinito, fino a toccare l’orizzonte.
Il grano sta all’Iowa come la palma sta alla Sicilia: disegna il paesaggio e lo skyline, limita i confini, scandisce l’alternarsi delle stagioni. Inverni rigidi, nevosi, grigi, estati calde e un autunno da cartolina.
Se gli italiani fanno dell’Iowa uno stato linguisticamente interscambiabile con Ohio o Idaho, gli americani sbigottiti mi chiedono: un’italiana a Fairfield, nell’Iowa?
Ecco: cosa ci fa una siciliana nel cuore rurale dell’America? E soprattutto, cosa fa a Natale?
Il Natale a Fairfield ha un sapore diverso: lontano dallo scintillante, consumistico, voyeristico Natale newyorchese, incomparabile rispetto alla grande bouffe siciliana fatta di tavolate chilometriche e cibo che si moltiplica come nel miracolo descritto nel Vangelo.
Dieci mila anime popolano questo paese premiato dalla rivista Smithsonian come tra le migliori venti destinazioni di piccole dimensioni da visitare. Anche il New York Times ne ha parlato come il luogo con la più alta concentrazione di start up pro capite.
E in effetti, Fairfield, merita una visita, senza la quale è impossibile spiegare e spiegarsi perché questo paesino è diventato un microcosmo multiculturale, ecosostenibile, progressista e alternativo che ha incuriosito persino Oprah Winfrey, la quale, dalla vicina Chicago, qualche anno fa, si è armata di telecamera ed è venuta a vedere con i suoi occhi perché da ogni parte del mondo si viene a Fairfield.
La storia, è una di quelle da raccontare ed inizia negli anni sessanta quando Maharishi Maheshi Yogi, guru spirituale e filosofo indiano ha insegnato a milioni di americani la meditazione trascendentale, una tecnica scientificamente approvata che aiuta ad alleviare lo stress e a vivere in armonia, favorendo anche processi di creatività e produttività.
La meditazione, abbraccia e si intreccia con la tradizione indiana della scienza vedica, da cui deriva anche la medicina ayurvedica.
Non solo super star e vip, come i Beatles e Mia Farrow, Arianna Huffington, la stessa Oprah, sono stati “folgorati sulla via della meditazione trascendentale”, molti hippie americani e gente comune hanno abbracciato negli anni uno stile di vita come controcultura rispetto alle regole mainstream.
La conversion “in massa” degli hippie apparteneva però agli anni sessanta, i tempi dell’immaginazione al potere, dei figli dei fiori e dei concerti a Woodstock.
Finita l’ondata hippie, nel 1974, Maharishi scelse per via della sua posizione e del nome foriero di buoni auspici, proprio la cittadina di Fairfield come sede di quella che oggi è la Maharishi University of Management, università che conta un migliaio di studenti da tutto il mondo, con una forte presenza di indiani, nepalesi, etiopi ed egiziani.
Fiore all’occhiello di questa università è il corso di laurea in Ingegneria informatica e il Master in ambiente e sostenibilità.
Nel campus universitario, un polmone verde costruito sui principi dell’architettura vedica (entrata ad est, cromoterapia nelle pareti e materiali non tossici), si serve cibo vegetariano e biologico, gli edifici usano energia alternativa, la carne è bandita e molti si muovono in bici anche nelle giornate nevose.
C’è ha anche la Maharishi School for the age of Enlightment, la scuola che va dall’asilo fino al liceo che si propone come educazione alternativa fuori dagli schemi accademici. Qui si insegna, coniugando metodo montessoriano, steineriano e principi di Maharishi, sanscrito, arte, scienze matematiche e cultura globale con un approccio multisciplinare ed alternativo senza il rigore accademico a cui la scuola classica ci ha abituato.
Fino a qui è arrivato il regista David Lynch, fervido sostenitore della meditazione trascendentale che ha, da due anni, inaugurato proprio a Fairfield il suo master in regia (filmaking) attraendo cosí una popolazione crativa e globale.
Qui sono di casa Jim Carrey, il figlio di Paul McCartney e la stessa Oprah. E non è difficile imbattersi in qualche agente di Hollywood o scrittore di successo.
Tutti mantengono però un profilo basso, un certo understatement che rispecchia la sobrietà dello stile di vita anche tra i benestanti.
Le giornate iniziano all’alba, momento ideale per i venti minuti dedicati alla meditazione. La maggior parte pratica questa tecnica a casa ma molti si recano due volte al giorno al dome, una struttura dalla cupola dorata che sembra un faro illuminante sul cielo terso di Fairfield.
A poche miglia a Nord di Fairfield c’è la città vedica di Maharishi dove 1000 pandits (studiosi dotti della conoscenza che arrivano dall’india) pregano ogni giorno ininterrottamente per la pace nel mondo e per una vita migliore. Chiamatela utopia se volete, da queste parti è realtà quotidiana.
A popolare questa comunità alternativa c’è un diverso campionario umano.
Ci sono gli hippie sessantottini che hanno abbandonato il furore rivoluzionario di Berkely e deciso di riparare nel tranquillo Midwest, ci sono ebrei e non della East Coast che, stanchi dell’adrenalinica New York, hanno scelto dimora in una delle case vediche. Ci sono anche artisti, registi e scrittori, imprenditori che considerano Fairfield un luogo che sprigiona energie creative, salvo riservarsi poi la fuga in direzione California quando le temperature scendono sotto lo zero.
Poi ci sono giovani famiglie americane che si sono trasferiti qui perché, googolando, hanno trovato questo paesino come un luogo alternativo, sicuro, dove crescere i propri figli.
Infine ci sono i locali, gli autoctoni, rappresentati di un’America rurale, gentile, onesta, operosa e lavoratrice.
Tutti questi aspetti convivono insieme in maniera pacifica, rispettosa, come in un disegno abbozzato da un’utopista.
Al netto della meditazione e della sua vocazione sostenibile, Fairfield rimane una città anonima del Midwest replicabile, almeno nella sua architettura, in mille esemplari: una piazza con un ampio parco al centro, architettura che ricorda i film western di John Wayne (che è nato proprio in Iowa) con influenze olandesi e tedesche (che da queste parti emigrarono in massa), insegne al neon di alcuni centri commerciali e di giganti della vendita al dettaglio come Walmart.
Della colonizzazione francese, a parte i colori della bandiera, i nomi di qualche città, qualche parola nel linguaggio (sac al posto di bag), rimane certo ben poco.
Doverosa premessa per spiegare che tipo di Natale si festeggia a Fairfield, al caldo nelle case o fuori nella collettività.
Nell’estetica, anche il Midwest segue le decorazioni tipiche del Nord Europa, Germania e paesi scandinavi in testa. Cosí i negozi hanno atmosfere calde con decorazioni in legno, alberi di Natale, marzapane e vino caldo per accogliere i clienti.
In piazza, oltre la casa di Babbo Natale che riceve i bambini con tanto di foto e regalino, è stato anche allestito un presepe segno del rispetto della tradizione Cristiana. Ai bambini sono riservati spettacoli e un giro in carrozza con Santa Claus.
Il Natale vero sta però nell’intimo delle case di legno, nelle luci che si intravedono dalle finestre. Nell’intimità del fuoco di un camino, ognuno immagina, celebra, vive il proprio Natale. Il momento di ritrovarsi a tavola è il 25 a pranzo mentre la vigilia viene considerata una grande abbuffata riservata agli italiani (pochi) e agli italo-americani (molti di più).
Anche la più numerosa comunità Indiana si riunisce per stare insieme e mette sulla tavola il profumo delle spezie del proprio paese.
Il mio sarà un Natale multiculturale, per curiosità e necessità.
Non ci sarà la caponata siciliana, né le abbondanti scacce sicule, né tantomeno l’insalata di polipo.
La mia cucina sarà, come lo scorso anno, un cross food culturale che proverà, a mettere d’accordo il Mediterraneo con l’Oceano indiano.
In un gioco di fantasia che non rinuncerà al pesce (e pazienza se dovró riparare nei mari del Nord con il salmone in assenza del pesce spada catanese) ma neanche al riso e dohl, sorta di lenticchie molto comuni nella cucina Indiana cucinate con cumino, curcuma e curry.
Resisterà la pasta al pesto e il pollo al forno.
Insieme a queste si uniranno i falafel e hummus, per ricordarci che, nonostante ci sembri un menu troppo lontano, il Natale arriva proprio dal Medio Oriente.
Arriverà la nostalgia e io lo so di già. E so anche quando: al telefono con l’allegra e numerosa famiglia lasciata a Catania che mi racconterà dettagli di abbuffate e momenti di estro culinario fra baldori, chiasso e risate in sottofondo. Mentre io con il mio micronucleo di tre, mi accontenterò di viverlo su skype questo Natale.
Ci sarà poi la cena con amici, quella del 25. Quest’anno Denise, americanissima di Filadelfia ma filo-italiana fino al midollo (lei dice in un’altra vita ero italiana) ha organizzato un potluck con cibo mediorientale.
Quando il Mediterraneo sembrerà troppo lontano, ci sarà da scartare uno dei panettoni siciliani, arrivati direttamente da Castelbuono come gentile omaggio dell’amico Fiasconaro.
A quel punto, il profumo dell’uva sultanina immersa nello zibibbo e Marsala sarà così forte da riportarmi dritta dritta nella mia Isola.
Buon Natale!!!