Se si esclude il magnifico prologo, il biopic dedicato alle gesta di Chris Kyle – cecchino degli US Navy Seals capace di abbattere più 250 nemici nelle sue quattro missioni in Iraq – non sembra davvero diretto dall’autore de Gli Spietati o Mystic River.
Rispetto allo stile fluido, quasi pacato, comunque sempre ammantato di malinconia che il grande regista americano ha sciorinato negli ultimi trent’anni di cinema, American Sniper si distanzia esplicitamente. La messa in scena è asciutta soltanto a tratti, mentre in non poche scene si concede momenti ad effetto anche piuttosto sorprendenti. Il che non significa necessariamente sbagliati. A parte infatti un uso scellerato del ralenty in un momento chiave del film, il film di Eastwood è visivamente eccellente, costruito con un’idea di messa in scena e montaggio solidissime. Spettacolo di guerra robusto, che si concede almeno un paio di momenti di fortissima tensione emotiva, i quali non mancheranno certamente di suscitare polemiche, speriamo sane. Si tratta sicuramente di un progetto molto coraggioso, che prende una posizione molto precisa nel voler incensare come vero eroe americano un soldato che ha sacrificato tutto o quasi per aiutare i sui compagni d’armi in situazioni di pericolo. Eastwood non maschera minimamente la sua intenzione specifica di immortalare il lavoro e l’idea di valore di Chris Kyle. Dove American Sniper probabilmente avrebbe potuto prendere una posizione più precisa è nel mettere in scena la necessità della guerra intrapresa. Comunque sia il film funziona a dovere nella rappresentazione del conflitto e del suo orrore, un po’ meno nello sviluppo emotivo del personaggio a confronto con la sua vita familiare. Le dinamiche psicologiche che incrinano il rapporto con la moglie Taya sono piuttosto retoriche, sviluppate ad esempio in maniera più coincisa e vibrante in un film “gemello” per tematiche come The Hurt Locker di Kathryn Bigelow.
Tornando da dove eravamo partiti, i primi quindici minuti di American Sniper sono invece cinema puramente eastwoodiano, secco e insieme densissimo. La backstory di Kyle viene dipinta con pochi, efficacissimi tratti, e rimanda lontanamente a un altro capolavoro del regista, A Perfect World (Un mondo perfetto, 1993). Poi quando parte il film di guerra vero e proprio il tutto si assesta su binari esteticamente differenti, comunque in grado di sprigionare la giusta dose di ottimo cinema.
Non è senza dubbio il miglior film di Clint Eastwood questo suo ultimo, ma è qualcosa di differente e a suo modo spiazzante, e questo è senza dubbio un pregio. Uno spettacolo forte, angosciante, se vogliamo anche coraggioso nel suo essere volutamente ambiguo. Se il lungometraggio riuscisse a sviluppare il giusto dibattito potrebbe davvero rivelarsi uno dei film più importanti dell’anno. Perché ciò che mette in scena – come hanno fatto in precedenza altre opere degne di menzione come ad esempio In the Valley oh Elah (Nella valle di Elah, 2007) di Paul Haggis – è che a combattere e rischiare la vita ci vanno il più delle volte le classi sociali più basse del sostrato americano, i giovani che spesso hanno come unica idea di futuro l’arruolamento nell’esercito. Le pallottole se le prendono sempre gli stessi, sembra volerci dire Eastwood con American Sniper. E questo agli americani succede fin troppo spesso sia dentro che fuori i loro confini.
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